Dall’Ilva alla Perugina in piazza per il lavoro

I piani industriali della Nestlè in Umbria e dei nuovi proprietari dell’Ilva prevedono nuovi licenziamenti. Il rischio povertà delle partite Iva
Ilva

Sono costretti a scendere di nuovo in piazza i lavoratori che temono per la loro occupazione. I casi più eclatanti, diversi per dimensioni, sono quelli della Perugina in Umbria, minacciati di forte contrazione degli organici dalla multinazionale svizzera Nestlè e il caso sempre aperto dell’Ilva con i suoi stabilimenti siderurgici in Liguria e Taranto.

Per giorni i notiziari televisivi hanno ripetuto i positivi dati statistici del ritorno dei livelli occupazionali a quelli prima della crisi del 2007, ma i numeri mettono in evidenza la composizione prevalente del lavoro con contratti a termine, mentre la Cgia di Mestre ha evidenziato il crescente rischio povertà delle cosiddette partite Iva, cioè quella fascia di popolazione (piccoli imprenditori, artigiani, commercianti e liberi professionisti) che non scende in piazza perché non ha interlocutori diretti da contestare ma un intero sistema che induce i committenti a pretendere questo tipo di prestazione che si rivela precaria e intermittente.

Il piano previsto per l’Ilva dalla cordata Am Investco che mette assieme la multinazionale Arcelor Mittal con il gruppo dell’ex presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, era già noto e criticato dai tecnici incaricati da commissari straordinari della società, nominati dopo lo scandalo e i processi penali per disastro ambientale che ha investito la proprietà della famiglia Riva.

La trattativa sull’Ilva tra parti sociali e governo non è neanche partita per decisione dello ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, polemico verso Am Investco, anche se lo stesso esponente del governo ha assicurato la presa in carico degli esuberi (4 mila persone) per i lavori di bonifica straordinaria del sito produttivo pugliese. Un’operazione attesa da anni e che verrebbe finanziata con i capitali sottratti dai conti miliardari dei Riva.

Ma il dettaglio che permette di cogliere la cifra esatta dell’attuale momento storico si può individuare nella volontà della nuova proprietà di procedere ad una nuova assunzione di tutti i dipendenti dell’Ilva non espulsi dal lavoro, con le nuove regole della riforma del lavoro introdotta dal governo Renzi (cosiddetto Job act). Oltre al venir meno degli accordi aziendali e anzianità, la nuova disciplina, come è noto, priva i contratti a tempo indeterminato dalla possibilità del reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa. Una tutela che mantiene il suo peso in grandi aziende strutturate al contrario di quanto può avvenire nelle piccole società dell’indotto che, nel caso di Taranto, conta altre migliaia di addetti.

Sembra perciò palese la logica di attirare i capitali e investimenti esteri puntando sulla contrazione del costo del lavoro e della sua protezione con la certezza contabile del firing cost (il prezzo definito del licenziamento).

Nelle fasi concitate delle manifestazioni in corso si riparla del piano AcciaItalia (gruppo indiano Jindal e finanziaria Delfin di Leonardo Del Vecchio), la cordata perdente nell’acquisizione dell’Ilva, e delle ipotesi improbabili di nazionalizzazione, ma la questione centrale restano le scelte di fondo delle politiche industriali e del lavoro.

Proprio ai lavoratori dell’Ilva si è rivolto papa Francesco, a Genova nel maggio 2017, in una serie di domande e risposte a partire dalla condizione difficile in cui si trovano i lavoratori e quegli imprenditori che «non pensano di risolvere i problemi dell’impresa licenziando la gente».

Una sfida niente affatto retorica e consolatoria che vede impegnati seriamente i cattolici italiani, che nelle settimane sociali di Cagliari di fine ottobre hanno deciso di confrontarsi sulla questione di un lavoro «libero, creativo, partecipativo e solidale».

 

Sullo stesso argomento leggi anche l’articolo di Silvano Gianti.

 

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