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Sfruttamento del lavoro e inquinamento: l’altra faccia dell’industria tessile

di Alba Cobos Medina

- Fonte: Città Nuova

Nuove collezioni, vendite costanti a prezzi bassissimi, acquisti di massa di abiti. La fast fashion è la tendenza attuale nella produzione e nel consumo di abbigliamento. Questo fenomeno, che comporta un consumo eccessivo di prodotti a basso costo e generalmente di bassa qualità, ha gravi conseguenze ambientali ed etiche.

Fonte: Pexels

Negozi di abbigliamento pieni di prodotti molto economici, elaborati in luoghi che non conosciamo e di qualità discutibile. Tendenze che cambiano sempre più velocemente, stagioni da seguire e saldi che ci danno un motivo in più per tornare al centro commerciale e continuare a fare shopping. L’industria dell’abbigliamento è attualmente caratterizzata dalla fast fashion, ovvero dalla produzione e dal consumo di grandi quantità di capi a prezzi molto bassi.

Come sottolinea Green Peace, «la fast fashion fa sì che molte collezioni di abiti di tendenza vengano introdotte sul mercato in brevi periodi di tempo». In questo modo, si segue un modello di produzione «in cui gli indumenti sono realizzati con materiali di bassa qualità per garantire un prezzo economico», creando capi «praticamente usa e getta», caratterizzati anche dalla mancanza di durata data la rapidità della produzione.

Secondo il rapporto dell’istituzione Ellen MacArtur, dal 2000 al 2015 la produzione di questo settore è raddoppiata: oggi si producono tra gli 80 e i 100 miliardi di capi all’anno. Tuttavia, l’uso di questi indumenti è diminuito di quasi il 40%. In altre parole: si producono più vestiti che mai, ma se ne usano molto meno.

Questa forma di produzione ha conseguenze ambientali ed etiche. La produzione ad alta velocità è quindi possibile perché avviene in Paesi in cui i diritti del lavoro sono limitati o inesistenti. Pertanto, per rendere possibile la fast fashion, questo processo viene esternalizzato in Paesi in cui avviene lo sfruttamento della manodopera. Come sottolinea Sustain your Style, un’organizzazione che si occupa di moda sostenibile, «gli stabilimenti di produzione cambiano spesso sede alla ricerca di costi di manodopera più bassi», generalmente in Asia meridionale.

Queste condizioni di lavoro sono caratterizzate da salari molto bassi e orari di lavoro disumani. La campagna Clean Clothes, che si batte per un abbigliamento prodotto in modo etico, sottolinea che orari di lavoro irrealisticamente lunghi sono comuni nelle aziende di abbigliamento internazionali. «I dirigenti delle fabbriche fanno pressione sui dipendenti perché lavorino da dieci a dodici ore al giorno, e a volte per turni di 16-18 ore, che aumentano con l’avvicinarsi delle scadenze». A causa dei bassi salari, i lavoratori dipendono da questo lavoro extra, ma molte fabbriche non pagano affatto le ore extra, «fissando obiettivi giornalieri impossibili da raggiungere o semplicemente manipolando i fogli di presenza», afferma l’organizzazione.

Le scarse condizioni di salute e sicurezza sono evidenti in eventi come il crollo del Rana Plaza nel 2013, in cui sono morti più di mille lavoratori del settore tessile a Dhaka (Bangladesh). Come sottolinea Sustain your Style, i lavoratori spesso lavorano «senza ventilazione, respirando sostanze tossiche o inalando polvere di fibre in edifici non sicuri». Come conseguenza di tutto ciò, «incidenti, incendi, infortuni e malattie sono molto frequenti nei centri di produzione tessile».

Anche i danni all’ambiente sono notevoli, come riportato dalle Nazioni Unite. Il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) sottolinea che l’industria della moda produce dal 2 all’8% delle emissioni di carbonio. Inoltre, la tintura tessile è la seconda fonte di inquinamento idrico globale. Anche lo smaltimento degli indumenti è un tema rilevante: «Ogni secondo, l’equivalente di un camion di rifiuti tessili viene smaltito in discarica o bruciato». Inoltre, sottolinea l’UNEP, il 9% delle microplastiche disperse negli oceani è costituito da prodotti tessili.

Secondo Greenpeace, questa esigenza di consumo e produzione veloce è strettamente legata al consumismo. E, sebbene la maggior parte della popolazione e dell’industria continui a seguire questi modelli di acquisto e produzione, negli ultimi anni sono apparse numerose iniziative che denunciano gli abusi dell’industria e propongono alternative per un’industria più sostenibile. Termini come moda etica, moda sostenibile o slow fashion (in contrapposizione all’imperante fast fashion), sono alcune tendenze emergenti e sempre più popolari che cercano di cambiare le dinamiche della produzione di moda, tenendo conto del pianeta e di tutti gli esseri che lo abitano. Grazie a questo tipo di azioni, i cittadini hanno sempre più strumenti per fare un consumo responsabile e fare la loro parte per cambiare le condizioni di un’industria per la quale si sta già pagando un prezzo troppo alto.

 

Explotación laboral y contaminación: la otra cara de la industria textil


Nuevas colecciones, rebajas constantes con precios muy bajos, compra de prendas de forma masiva. La moda rápida marca la fabricación y el consumo de ropa en la actualidad. Este fenómeno, que implica un sobreconsumo de productos baratos y, generalmente, de poca calidad, tiene graves consecuencias a nivel medioambiental y ético.  

Tiendas de ropa abarrotadas de productos muy baratos, producidos en lugares que desconocemos, y de una calidad cuestionable. Tendencias que cada vez cambian más rápido, temporadas que seguir, y rebajas que nos dan un motivo más para acercarnos de nuevo al centro comercial y seguir comprando. La industria de la ropa se caracteriza en la actualidad por la moda rápida; es decir, la producción y consumo de grandes cantidades de indumentos a precios muy económicos.

Como se apunta desde Green Peace «la moda rápida provoca que se introduzcan al mercado muchas colecciones de ropa en tendencia durante lapsos breves». De esta forma, se sigue un modelo de producción «donde se fabrican prendas con materiales de baja calidad para asegurar un precio barato», creando ropa «prácticamente desechable», que además se caracteriza por su escasa durabilidad, dada su rápida elaboración.

Según el informe de la institución Ellen MacArtur, del 2000 al 2015, la producción en esta industria se dobló: actualmente, se fabrican entre 80 y 100 mil millones de prendas al año. Sin embargo, el uso de estas prendas ha decrecido en casi un 40%. En otras palabras: se produce más ropa que nunca, pero tiene un uso significativamente menor.

Esta forma de manufactura tiene consecuencias medioambientales y éticas. Así, la fabricación a ritmos vertiginosos es posible porque se da en países donde los derechos laborales son limitados o inexistentes. Por ello, para que la moda rápida sea posible, este proceso se externaliza a países donde se produce explotación laboral. Como señalan desde Sustain your Style, entidad de moda sostenible: «las plantas de producción cambian frecuentemente su emplazamiento en busca de costes laborales más reducidos», generalmente en el sur de Asia.

Estas condiciones laborales están marcadas por sueldos muy bajos y horarios inhumanos. La campaña Clean Clothes, que aboga por una ropa fabricada en condiciones éticas, señala que el trabajo durante horas largas y poco realistas son habituales en las empresas de ropa internacional. «Los directores de las fábricas presionan a las personas empleadas a trabajar de diez a doce horas diarias, y a veces turnos de 16 a 18 horas, que aumentan a medida que se acercan las fechas límites». Debido a los bajos salarios los trabajadores dependen de este trabajo extra, pero muchas fábricas directamente no pagan dichas horas, pues «marcan unos objetivos diarios totalmente imposibles de cumplir que deben ser logrados, o simplemente manipulan las planillas horarias», señalan desde la organización.

Las pésimas condiciones de salud y seguridad se hacen patentes en acontecimientos como el derrumbe del Rana Plaza en 2013, en el que murieron más de mil trabajadores textiles en Dhaka (Bangladesh). Como señalan desde Sustain your Style, se suele trabajar «sin ventilación, respirando sustancias tóxicas o inhalando polvo de fibras en edificios inseguros». Como consecuencia de todo esto «los accidentes, los incendios, las lesiones y las enfermedades son muy frecuentes en los centros de producción textil».

El daño al medio ambiente también es notable, tal como reportan desde la Organización de las Naciones Unidas. Desde su Programa para el Medio Ambiente (UNEP) apuntan que industria de la moda produce del 2 al 8 por ciento de las emisiones de carbono. Además, el teñido textil es la segunda mayor fuente de contaminación mundial de agua. El deshecho de ropa también es un asunto relevante: «Cada segundo, el equivalente a un camión de basura de productos textiles se deposita en el vertedero o se quema». Además, señala UNEP, el 9% de las pérdidas de microplásticos en el océano son textiles.

Esta necesidad de consumo y producción a ritmos vertiginosos está estrechamente relacionada con el consumismo, apunta Greenpeace. Y, aunque la mayoría de la población y la industria continúe siguiendo estos patrones de compra y producción, en los últimos años han aparecido numerosas iniciativas que denuncian los abusos de la industria y proponen alternativas para una más sostenible. Términos como la moda ética, sostenible, o slow fashion (frente a la moda rápida imperante), son algunas tendencias emergentes y cada vez más populares, que buscan cambiar las dinámicas de producción de moda, teniendo en cuenta el planeta y a todos los seres que vivimos en él. Gracias a este tipo de acciones, la ciudadanía tiene cada vez más herramientas para hacer un consumo responsable y poner su grano de arena en cambiar las condiciones de una industria por la que ya se paga un precio demasiado alto.

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