Sanremo 2019: il dentro e il fuori

Il Festivalone veleggia “armonico” secondo i diktat del Baglioni bis. Ma la sua placidità è spesso sinonimo di noia amplificata dalla penuria di emozioni, oltre tutto diluite in una durata esagerata. Gli ascolti reggono ancora, nonostante la lieve diminuzione rispetto alla scorsa edizione

Incurante di tutto ciò che s’agita sotto i cieli extrasanremesi la kermesse dell’Ariston si consuma − e spesso consuma − senza particolari scossoni emotivi. Orfana dei sanguinosi “dentro o fuori” del passato, quest’anno sono il dentro e il fuori Sanremo a confondersi e a scontrarsi, a nascondersi e a rincorrersi.

«Siamo soltanto bagagli», canta il giovane Ultimo, quasi a sottolineare gli smarrimenti in corso; gli Zen Circus accennano ai “porti chiusi”, sorvolando anche la globalizzazione, i femminicidi e i tanti cattivi maestri (e genitori) odierni; «E ci impegneremo a stare meglio quando fare meglio non si può», pare rispondergli la Turci. Il nostalgico Nigiotti accenna «centri commerciali ai posti dei cortili» e allo strapotere dell’inglese. Silvestri è fra i pochi ad affrontare di petto un problema (nel suo caso quello delle carceri e del disagio giovanile), insieme all’emergente Mahmood che invece racconta i malesseri generazionali di tanti giovani figli d’immigrati; cui fa eco Irama che canta: «È difficile stare al mondo quando perdi l’orgoglio». E poi c’è Motta che richiamandosi ai naufragi mediterranei nel ritornello dichiara: «Dov’è l’Italia amore mio? Mi sono perso anch’io». Ma sono lampi, guizzi isolati: la stragrande maggioranza delle rime è come sempre ingolfata dall’amore. Amore, amore e ancora amore, in tutte le sue salse chiaroscure. Nel pur capientissimo ventre sanremese di quest’anno, solo scaglie di realtà annegata nel pesto e fra i tripudi floreali dell’Ariston.

Ma se le tensioni e le paure in corso trovano qua e là qualche fioco riverbero in qualche testo o sottotesto, sotto le volte e davanti alle telecamere dell’Ariston il Mondo Reale non ha praticamente accesso: quasi fosse una futilità da ignorare o una mina da disinnescare. Viceversa le faide politiche in corso trovano nell’ecumenismo stilistico di quest’anno il loro perfetto opposto, così come la recessione che si sta palesando, tanto più che anche per questa edizione i dati paiono in tenuta su quasi tutti i comparti. Più lontane della Luna appaiono da qui le beghe Tav (del resto l’alta velocità al Festival resta un miraggio), per non parlare delle guerre civili africane, dei drammi venezuelani, delle preoccupazioni post Brexit e degli strappi coi cugini transalpini. Del resto anche in quel di Sanremo trionfa in tutte le salse l’adagio sovranista “Prima gli italiani”: un po’ per risparmiare sugli ospiti stranieri, e un po’ perché un Festival, mai come quest’anno così autarchico, è la risposta perfetta ai desiderata dei referenti governativi che lo sovraintendono davvero.

Scherzi e iperboli a parte, la seconda e la terza serata hanno lasciato il tempo che han trovato: poche emozioni degne di sopravvivere nei nostri ricordi, e un bel po’ di noia: un Festival estenuante dove si ride poco e si sbadiglia molto. Con qualche benemerita eccezione: per esempio la Habanera stralunata con tanto di fischiettio morriconiano sul finale offerta dalla Raffaele nella seconda serata, o le frecciatine dell’accoppiata di Pio & Amedeo, e l’intensa Il peso del coraggio della Mannoia fuori concorso; ieri sera si son salvati giusto i lazzi stralunati della Vanoni e il duetto Venditti-Baglioni. Stasera si spera che la nuova sbornia di duetti offra qualche brivido in più, così come il tributo del Liga al sempiterno Guccini.

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