Lavoro. Francesco preso sul serio

Competizione contro cooperazione. L’intervento del papa a Genova chiama in causa la crisi culturale della sinistra e del sindacato. Il caso esemplare delle fabbriche di armi. «La Laudato sii è oggi il manifesto internazionalista dei poveri e degli sfruttati», afferma Andrea Ranieri, di Sinistra italiana
ANSA /LUCA ZENNARO

Commentando sul quotidiano Il Manifesto il discorso sul lavoro pronunciato da Francesco a Genova il 27 maggio 2017, Andrea Ranieri ha riconosciuto che il papa «ha messo in discussione concetti che hanno attraversato e impregnato anche il campo della sinistra storica». Ha citato la consonanza tra questa visione e l’analisi del sociologo statunitense Richard Sennet che ravvisa nella «sostituzione della competizione alla cooperazione, nella teoria e nella pratica organizzative, una delle cause non ultime della crisi che stiamo attraversando».

Ranieri è espressione di una lunga storia di impegno nella sinistra sociale e politica in Italia, a partire dal nonno, tra i fondatori delle prime società operaie di mutuo soccorso, al padre partigiano di primo piano e poi sindaco di Sarzana, in Liguria, per ben 25 anni. Egli stesso è stato sindacalista nazionale Cgil nel settore ricerca, senatore del Pd, assessore a Genova e ora nella direzione nazionale di Sinistra Italiana

La evidente debolezza del sindacato, spesso assente in tanti luoghi di lavoro o con una capacità di intervento di mera riduzione del danno, non nasce dalla colonizzazione culturale ed esistenziale del pensiero liberista?

La debolezza del sindacato, come della maggior parte della sinistra politica, forse nasce dal non avere adeguato la sua azione alle conseguenze che la mondializzazione (preferisco questo termine a globalizzazione. La mondializzazione è un fatto, la globalizzazione una ideologia), provoca nei luoghi di lavoro e nella rappresentanza degli interessi. Se la produzione materiale si sposta nei luoghi dove sono più scarsi i diritti e manca la contrattazione, con un fordismo selvaggio senza welfare e senza diritti, vedi le modalità con cui si costruiscono in molti Paesi del Sud del mondo le componenti materiali del sistema informatico o della moda, e cresce nei Paesi di prima industrializzazione il lavoro nei servizi − quelli intelligenti a quelli servili − più difficili da organizzare collettivamente, cala il reddito complessivo che nel mondo va al lavoro e la capacità del sindacato di rappresentarlo.

Questo spiega lo sfruttamento del lavoro nel Sud del mondo….

Non solo! Anche il lavoro industriale che resta in casa ne risente. L’apertura delle frontiere non è solo a prodotti che risultano concorrenziali perché vengono fabbricati senza nessun riguardo alla sostenibilità ambientale e sociale, ma anche a lavoratori che vengono impiegati in Italia con i contratti dei Paesi di provenienza.

Dove avviene questo fenomeno?

Faccio il caso della cantieristica dove il numero dei lavoratori stabili, e italiani, è ormai al di sotto del 50 %. Il resto si fa con ditte in prevalenza rumene che offrono ai loro lavoratori salari che sono la metà di quanto guadagna un lavoratore italiano. Per non parlare del modo in cui viene abbassato il costo del lavoro, e la capacità di rappresentanza, nel lavoro agricolo tramite un caporalato ai confini delle forme più feroci di schiavismo.

Quindi che strategia si può seguire per reagire?

I sindacati devono riscoprire e praticare l’internazionalismo. Costruire a partire dall’Europa piattaforme che impediscano il dumping dei diritti ed il dumping fiscale, accompagnare la mondializzazione con un’azione per mondializzare il rispetto dei diritti e delle condizioni di sicurezza sul lavoro. Difficile per un sindacato e per una sinistra politica ancorata allo Stato nazione, e che subisce la sua crisi più di ogni altro soggetto. Il fascino del messaggio di papa Francesco, per i credenti e per i non credenti che hanno a cuore la giustizia sociale, è di essere l’unico a parlare agli sfruttati di tutto il mondo. L’enciclica Laudato sii  è oggi il “manifesto” internazionalista dei poveri e degli sfruttati.

Il papa dice anche che non tutto il lavoro è buono. Oltre a quello non dignitoso anche quello legato a produzioni come le armi o prodotti inquinanti. Spesso il sindacato partendo dalla debolezza dei lavoratori che sono i primi ad essere colpiti da processi di riconversione produttiva, difendono comunque l’occupazione accettando il ricatto di un sistema che apparentemente non riesce a saper creare altro lavoro.

La forza del messaggio di papa Francesco è di aver costruito una relazione stringente fra la perdita di dignità del lavoro e la distruzione dell’ambiente e della natura. La produzione di armi, la produzione che inquina, non è «solo riprovevole moralmente, ma colpisce anche la dignità e la libertà dei lavoratori.

Perchè risponde alla stessa logica – “ il profitto prima di tutto”- che produce le intollerabili diseguaglianze fra gli uomini. Un messaggio più che mai attuale perché la disgiunzione fra le due cose può essere cavalcata dal risorgere dei nazionalismi reazionari. Mi ha molto colpito in questo senso l’annuncio che Trump ha dato della riapertura e del rafforzamento della filiera del carbone, che ha anticipato il ritiro degli Usa dagli accordi sul clima di Parigi, fra gli applausi dei rappresentanti del lavoratori del carbone.

Le faccio allora il caso del Sulcis dove la messa in discussione della produzione di bombe per la guerra nello Yemen suscita reazioni e malumori: «Vorremmo produrre cioccolata ma il mercato ci chiede questo» ha  detto un sindacalista ad Avvenire….

Occorre una iniziativa ampia e diffusa per la riconversione dell’industria di guerra e per la riconversione verde dell’economia. Occorrono per questo forti investimenti pubblici e un piano per il lavoro che parta dalle esigenze di riqualificazione del nostro territorio. È sempre più inaccettabile che i lavori socialmente utili siano confinati nella logica del volontariato e della gratuità, quando non presentati come puro e semplice ammortizzatore sociale, e vengano considerati retribuibili, perché ha mercato,  i lavori che producono il lavoro che fa male agli uomini e alla terra.

Perché non si esce a fare un discorso su cosa, per chi e come produrre?

Un grande pensatore del ‘900, John Dewey, scriveva: «Il lavoro è un’attività che include coscientemente il rispetto delle conseguenze come parte di se stesso; esso diventa lavoro forzato, se le conseguenze sono al di fuori dell’attività come fine per il quale l’attività non è che un mezzo».  Mi pare lo abbiano capito bene i ragazzi della Unione degli studenti che hanno presentato al ministero dell’Istruzione una proposta di Statuto che deve regolare l’alternanza studio-lavoro, dove tra le altre cose, dicono che non può essere considerato formativo un lavoro in fabbriche che producono armi, inquinano l’ambiente, o sono in qualche modo colluse con la camorra. A chi ritiene che qualsiasi lavoro sia formativo, rispondono che solo un buon lavoro, nel senso in cui lo intendeva Dewey, è formativo. Un piccolo segnale, ma importante perché viene da una organizzazione di giovanissimi.

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