I luoghi del dolore e quelli dell’orgoglio

La Collina delle croci è memoria dell’umana lotta all’asservimento. Le colline di Karnavé ricordano le radici del popolo.
Collina delle croci

Ci sono luoghi, i più impensati, che visti e rivisti mille volte in foto e video, allorché li si scorge per la prima volta dal vivo appaiono assolutamente nuovi, mai visti. Mai capiti. Così è, a Nord, della minuscola collina a una dozzina di chilometri a settentrione di Šiauliai, sulla strada che collega Kaunas a Riga. E così è delle colline di Karnavè, poco distanti dal castello di Trakai, nel Sud del Paese, che ricordano gli albori del popolo lituano.

 

Grumi di croci

 

La Collina delle croci, kryžių kalnas in lituano, racconta una storia costellata di dolori distruzioni blasfemie: le prime croci furono piantate nel 1831, per protestare contro lo spietato regime zarista. Nel XIX secolo erano 150, 200 nel 1914, migliaia nel 1940, all’arrivo dei sovietici, che nel 1961 vollero smantellarla, e così nel 1973 e due anni più tardi. Ma quasi miracolosamente le croci nottetempo rispuntavano, per il coraggio dei fedeli lituani.

Il giorno s’annuncia nebbioso e misterioso, quel tanto che serve per ammantare di fascino la campagna. La strada è deserta e rettilinea: chilometro dopo chilometro la luce del sole combatte la sua battaglia contro la nebbia, vincendola proprio nel momento d’arrivare alla Collina delle croci che, dalla distanza, appare una strana escrescenza irsuta, quasi un enorme istrice addormentato. Oppure un boschetto dagli alberi stranamente ritti e con i rami assolutamente perpendicolari ai tronchi.

Non c’è anima viva, l’approccio è lento e modesto, perché una scia del conglomerato di croci giunge, diradandosi, fino al parcheggio. Ma da subito colgo la verità ultima che la collina vuol far passare al visitatore: le croci sono tutte simili e tutte diverse.

Scatto circa 250 foto e ognuna evidenzia non solo croci diverse, ma anche posizioni che ne modificano il senso. Ogni croce tradisce il credo e finanche il carattere di chi l’ha scolpita o fabbricata. Ogni grumo di croci dice una serie di casualità, ma suggerisce pure il modo di rapportarsi di un popolo con le proprie disgrazie. La croce affratella: piccoli o grandi, scolpiti o rustici, di mogano o di pioppo, colorati o senza nemmeno mordente, i legni incrociati paiono affratellati, perché i dolori sono uguali nel loro effetto. Che siano frutto di colpa o di ingiustizia, dilazionati nel tempo o brutalmente immediati, tutti appartengono a quel dolore universale cui solo il Crocifisso, appunto, ha dato se non un senso almeno una via di spiegazione (e di condivisione).

Salgo e scendo, m’incuneo nei brevi pertugi che nel muro di croci s’aprono di tanto in tanto. Croci cadute per terra ce ne sono a non finire, mi trovo persino a calpestarne, stanno riunendosi alla terra. Le osservo interdetto e non privo di sentimenti di colpevolezza, subito scusato dalla naturalezza di quella commistione, di quel ritorno – memento homo! – all’universale polvere.

Scalzo inavvertitamente una di queste piccole croci lignee cadute: il crocifisso di metallo arrugginito s’è distaccato dal supporto vegetale e giace lì, ai miei piedi. Non posso far altro che raccoglierlo, ripulirlo, ammirarlo nella sua dozzinale rilevanza: chissà quale sofferenza l’ha portato fin qui!

Lo appoggio sul legno orizzontale d’un’altra croce e così m’accorgo d’improvviso che altre migliaia di crocifissi sono stati allo stesso modo adagiati su altre croci da altre mani come le mie, pietose, da pietas. Quasi a dire che al venerdì segue il sabato, alla morte il riposo nel sepolcro. Almeno quello, il riposo del dolore, la tregua della fitta, se anche la risurrezione non ha ancora spiegato le sue ali. Giacciono sulla Collina delle croci migliaia e migliaia di crocifissi riposanti.

Anche se da lontano la collina pare ospitare solo croci ben ritte a sfidare i potenti di questo mondo e le loro piccole e grandi malvagità, più m’addentro nella selva di croci, più mi rendo conto che quasi nessuna è perpendicolare al suolo. In un modo o nell’altro, ognuna sembra sostenersi grazie a un’altra croce. Lezione grande: la croce mia e la croce tua, condivise, danno una forza di sopportazione incomparabile con quelle, pur eroiche, vissute in solitudine.

Scendo i gradini di legno che dividono in due la collina. Non possono che essere croci cadute e riposizionate. La croce, le croci, sostengono i nostri passi. Permettono, loro, di farci avanzare verso la risurrezione.

 

Ierioggidomani

 

È un villaggio sperduto nella campagna più povera della Lituania, povera di tutto, della propria memoria e della propria ricchezza. Uno tra i tanti, nell’abbandono delle case e delle persone, almeno in apparenza, perché in realtà una sana tradizione cattolica qui continua a sostenere gravi situazioni di miseria materiale e spirituale.

Dunque Karnavé. Mi avevano segnalato il luogo come un posto sperduto, dove avrei potuto incontrare, incrociare piuttosto, la notte dei tempi lituani. Fatico a crederci, soprattutto dopo aver capito che il sito che cercavo è proprio quello che ho sotto gli occhi: un supermercato grigio e senz’anima, una chiesa neogotica in mattoni rossi, una sorta di museo chiuso e abbandonato.

È un avvinazzato sdentato che mi rassicura (o mi inquieta): sono sulla strada giusta. Un arco di legno mi indica finalmente che qualcosa d’interessante s’avvicina, forse ci sono, il simbolo dell’Unesco e quello della lista dei siti “patrimonio dell’umanità”. Dinanzi, una costruzione di legno, chiusa, dalla gradevole forma. Una terrazza sul fiume Neris spalanca d’improvviso orizzonti che paiono di ierioggidomani. Ci sono, mi dico: quando gli spazi si eterizzano, vuol dire che l’uomo ha saputo scegliere il suo avvenire. Qui i primi lituani avevano trascorso i loro giorni, su queste colline-fortezze che si aprono sulla valle con grazia e con decisione.

Qui c’erano uomini e donne sin dal 9 mila avanti Cristo. Avevano elaborato una loro civiltà stabilizzata, se è vero che nel XIII secolo Karnavé divenne la prima capitale di tutte le tribù lituane federatesi. Tribù pagane, dedite in massima parte al commercio e alla caccia. Ma nel 1365 e nel 1390 si scatenarono contro di essa prima le milizie delle tribù settentrionali, poi quelle che venivano da meridione, che distrussero la fiorente città. Persino il futuro re d’Inghilterra, Enrico IV, partecipò alla ventura, testimoniando con ciò la potenza commerciale e militare raggiunta da Karnavé.

Cosa resta di tutto ciò? Qualche pietra e cinque tumuli di terra che ricoprono fortificazioni e bastioni della “civiltà Karnavé”. Null’altro. Un lungo serpente di gradini di legno sale e scende lungo i cinque tumuli, creando un effetto assai gradevole, esteticamente parlando. Non resisto all’invito di percorrerli nella loro interezza. Istante dopo istante mi ritrovo colmo, soddisfatto, senza ulteriori bisogni di rispondere a questioni storico-culturali. La sapienza delle prospettive che via via si aprono mi testimonia la giustezza delle scelte di un popolo agli albori. Karnavé esprime i lituani: laboriosi, sapienti, ricchi d’inventiva e di chiare prospettive. E, come in un lampo, intuisco quello che su tal popolo portò l’arrivo della fede cristiana. Era il 1386, quando il granduca Jogaila sposò Jadwiga di Polonia e accettò la fede del Nazareno.

 

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Lituania

Delle tre repubbliche baltiche, la Lituania è quella più a sud. È la più grande (ha una superficie di 65 mila km2) e la più popolata (3,3 milioni). È stata la prima a riconquistare l’indipendenza dall’Unione Sovietica, l’11 marzo del 1990.

Sapendo che il monte più alto è l’Aukštasis (294 metri!), si capisce bene come il suo paesaggio sia sostanzialmente pianeggiante. La Lituania è percorsa da 758 fiumi, conta 2800 laghi ed è bagnata dal Mar Baltico. Si fregia pure di riserve naturali ed ha il 30 per cento del territorio ricoperto da foreste.

La popolazione è costituita per l’84 per cento di lituani, il 6 di polacchi e il 5 di russi. La capitale, Vilnius, è una città barocca edificata sulle rive dei fiumi Neris e Vilnia.

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