Chi credi di essere?

I campioni dello sport come modello nella vita? La parola a Valerio Bianchini, leggenda del basket.
Valerio Bianchini

Nelle librerie spopolano, vendendo decine di migliaia di copie, le biografie dei divi dello sport: consapevoli d’essere i nuovi modelli da imitare, non esitano a raccontare fatti e misfatti che li hanno portati al successo. Non è solo il genere letterario a preoccupare (Dico tutto, Se uno nasce quadrato non muore tondo, Mo je faccio er cucchiaio, Il codice Gattuso, Se mi mandi in tribuna, godo, Calci e sputi e colpi di testa), ma la sciagurata proposta di uno sport come scorciatoia verso il successo. 

Ma i campioni dello sport meritano la qualifica di campioni nella vita? Di campioni ne ha scoperti e gestiti tanti Valerio Bianchini, 40 anni di basket alle spalle, tre campionati vinti con tre squadre diverse, due coppe europee ed una intercontinentale per club, ex-allenatore della nazionale, ed una voglia inguaribile di studiare lo sport e ciò che lo circonda.

Ricorda il foglio appeso nello spogliatoio degli Indiana Hoosiers. «Lì Bobby Knight, allenatore geniale, aveva scritto un messaggio ai suoi giocatori. Più o meno diceva così: “Tu che indossi la maglia degli Hoosiers ricordati che là fuori, fra quei ventimila spettatori, c’è un bambino che ti guarda: tu sei il suo idolo, ciò che tu fai è per lui la cosa giusta, lui osserva come tratti avversari, allenatori ed arbitri. Ricordati di essere un esempio per lui, aiutalo a diventare grande come sei diventato grande tu”».

 

Chi sono i campioni veri?

«I campioni veri che ho conosciuto erano anche uomini veri: non persone che hanno avuto un’educazione per essere dei campioni. L’allenatore ha un compito fondamentale, che lo voglia o no: è un educatore. Deve porre gli atleti davanti al compito di essere un modello per i più giovani, come giocatore e come cittadino».

 

Esiste un itinerario per diventare un campione?

Per rispondere Bianchini ripercorre, con sapiente maestria, la propria storia, che potrebbe essere la storia di tanti ragazzi che si avvicinano allo sport: «Da ragazzo amavo Salgari e Verne: leggevo e sognavo. Poi un giorno mia madre mi portò all’oratorio: credo volesse farmi scoprire che esistevano anche gli altri. Trovai nello sport un mondo di interazione che non conoscevo e che la scuola non offriva. Scoprii la fatica, il dolore fisico, diverso da quello che potevo provare a casa e per il quale invece cercavo consolazione: lì serviva a diventare stoici, permetteva di far crescere un’identità di persona. Compresi che nel basket non bastavano i muscoli, occorreva saper riflettere e riflettere rapidamente. Così maturò una passione per lo sport, il primo vero amore della mia vita.

«Un giorno accadde un fatto, piccolo, ma straordinario. Un adulto mi chiese: “Perché non vieni a giocare con noi?”. È la chiamata: qualcuno ti sceglie. E lì c’è un maestro che ti insegna: prima giocavi per te, ora giochi con gli altri. E scopri che il gruppo è la tua forza, che insieme si compiono imprese straordinarie. A basket si gioca in cinque, come le dita di una mano: ciascuna, da sola, ha poca forza, insieme si chiudono in un pugno e colpiscono con forza impensabile. La molteplicità è forza. E poi le regole, un libro scritto che indica lo spirito; ed un arbitro che le fa rispettare e che va rispettato perché, se lo rispetto, divento grande. E altre regole, che ti vengono dai compagni o dal coach: “Non guardare la palla quando palleggi perché così puoi guardare i compagni…”.

«E poi tempeste: partite storte, arbitri impazziti, allenatori scriteriati. Che fai? Segui le regole interiori: “Conserva la regola e la regola ti conserverà!”. E un giorno scopri che c’è anche un pubblico a vederti e senti per la prima volta che puoi essere un modello per chi ti osserva dalle gradinate».

 

La responsabilità dell’allenatore di schierare o meno un atleta può servire a farlo crescere?

«Gli atleti professionisti sono molto motivati a migliorare, ma è necessario che riconoscano il ruolo dell’allenatore. Quando comincio con un gruppo nuovo, so che davanti non ho ancora una squadra, ma che ognuno vede il coach solo come colui che lo può far giocare o meno. Sono io che devo conquistare ciascuno, che devo far comprendere ad ogni giocatore: “Tu sei stato scelto da me, io voglio raggiungere il successo insieme a te, non posso farlo senza di te e per questo siamo alleati. Voglio che tu migliori ancora e riduca gli svantaggi, ma ti ho scelto per quello che sei”. Occorre poi essere coerenti e mai tradire la fiducia che chiedi loro».          

 

Quando lo sport è diventato una professione, un allenatore può ancora avere un ruolo di educatore?

«Dedicare allo sport la totalità del tempo porta gli atleti ad estraniarsi dal mondo: la responsabilità degli educatori è di non farli fuggire dalla realtà, ovvero dal fatto che il talento va coltivato ogni giorno, con costanza. Tutti ti chiedono di vincere, pubblico, allenatore, dirigenti, mass media, ma è un inganno: la vittoria è solo la conseguenza del fatto che sei bravo e la meta è dunque migliorare sempre.

«La vittoria è l’altra faccia della sconfitta e la sconfitta è lo stimolo più importante per favorire la ricerca di un miglioramento. Se invece vale solo la vittoria, è giusto vincere corrompendo gli arbitri, ingannando gli avversari, usando il doping. Per vincere non basta la tecnica, occorre un’anima: questa purtroppo è corruttibile, non solo nello sport, e su questo dobbiamo lavorare. Se teniamo alla crescita spirituale umana, come teniamo a quella tecnica sportiva, forse l’atleta di livello riuscirà a restare un uomo».

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