Čajkovskij incanta Roma

All'Accademia di Santa Cecilia, nell'ambito del festival dedicato ai 125 anni dalla morte di Čajkovskij, sono state seguite le sue sei sinfonie dirette da Valerij Gergijev. Un viaggio tra la vita e le opere del compositore russo.
Valerij Gergijev

Chi non ha mai ascoltato dal vivo l’orchestra del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo non sa cosa sia un suono fiammante, passionale, capace di sonorità sotterranee e di svettanti acuti dei violini, di ottoni squillanti come un sole e di legni pastosi. Certo, ci sono le incisioni, si sa, ma per quanto tecnicamente perfette, manca la vita della sala, gli umori di quest’orchestra russa che è un blocco unitissimo, un personaggio vero e proprio, diretto con rigore e fuoco dal carismatico Valerij Gergijev. All’Accademia di Santa Cecilia, nell’ambito del festival dedicato ai 125 anni dalla morte di Čajkovskij, scomparso misteriosamente a 53 anni, sono state seguite le sue sei sinfonie. Un percorso che va dai 26 ai 53 anni nella vita del compositore: dalla prima sinfonia all’ultima, diretta da lui stesso nove giorni prima della morte. Inoltre sono capolavori i balletti, le opere liriche, i concerti scritti da quest’uomo pieno di pathos e di fantasia, complesso e fragile.

La Prima Sinfonia, “Sogni d’inverno” (1868), è un mosaico di impulsi, di suggestioni, tra momenti lugubri, resi dagli archi gravi. I violini suonano acuti come lance, gli ottoni solari, ma producono anche sonorità cupe e grasse. Vi regna un clima di sospensione, come se il compositore faticasse a dare unità fra tanti temi e ricerche, sino al finale grandioso. Ma il compositore russo mostra il gusto tutto suo per i colori orchestrali e una fantasia straripante che è solo da controllare.

Il percorso si conclude con la sesta sinfonia, la celebre “Patetica“. Visibilmente disperata già dall’inizio con la melodia piangente e grondante morte, come in un Dies irae personale. Il musicista si dibatte tra voglia di vivere e senso della fine vicina, voluta e non voluta al tempo stesso. Pause, silenzi, che Gergijev allunga intelligentemente perché sono musica anch’essi, nessun sentimentalismo, anzi una direzione energica, virile, tra fiamme accese e cenere che si va spegnendo. Dopo l’inizio lentissimo, gli spasimi degli archi e la catastrofe, sino all’ultimo tempo: un Adagio lamentoso che è la confessione di un’anima straziata. Musica di presagi, anche musicali, come capirà Mahler, che la direzione di Gergijev fa scendere sino in fondo a noi, tra scoppi di collere improvvise degli ottoni e dolente rassegnazione degli archi gravi. Poi, il lunghissimo silenzio e più nulla. Tutto è stato detto. Indimenticabile.

Più serena invece è l’ultima opera lirica del musicista, Iolanta, poco nota da noi, ma popolare in Russia. Un atto unico con tante scene per un racconto in stile molto “decadente” e “floreale”, con cui il compositore guarda all’Occidente ma con la dolcezza, la malinconia e il fuoco dell’anima russa. L’impronta è quella di un arioso cantabile, costante nel racconto della bella figlia di re Renato di Provenza che vive tra amiche e fiori, ma purtroppo non può vederli. Sarà l’amore a ridarle la vista e la felicità. Raffinata come una tela di Klimt, la partitura risente degli echi del Werther di Massenet, del suo sentimento talora estenuato, non è però mai sdolcinata. Fra le aeree frasi dei legni e degli archi infatti si insinua talora un’ombra cupa, per cui il dramma c’è, pur se Čajkovskij lo trasporta sul piano della leggiadria più trasparente e melodiosa.

L’orchestra ceciliana asseconda con il suo tipico suono “cantabile” la direzione appassionata di Gergijev, che fa sussultare di slanci una partitura molto bella, nonostante la verbosità del libretto. Cast russo di qualità, voci possenti e voci dolci per un lavoro di liricità perfetta, andata in scena nel 1892 insieme al balletto Lo Schiaccianoci.

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