Addio immensa Aretha

Ha cantato e combattuto finché ha potuto, e se n’è andata. La più grande regina della black-music ci ha lasciato a 76 anni, nella sua casa di Detroit. L’ultima esibizione qualche mese fa, per la Fondazione di Elton John a favore della lotta all’Aids.

Era nata nel Sud degli States, a Memphis Tennessee, non lontano dal luogo dove pochi anni prima era nato e sbocciato Elvis Presley. E presto era diventata un mito anche lei, per quella voce inimitabile, per le sue battaglie per i diritti civili della sua gente, per quel suo modo di essere e di esprimere attraverso la musica e il suo stile multiforme l’anima più autentica del popolo afroamericano, fino a renderla patrimonio universale.

Una carriera fantastica iniziata come tanti colleghi nel coro della sua parrocchia, quella di suo padre pastore battista, e di sua madre, cantante gospel. Dopo la separazione dei genitori, si era trasferita al Nord, nella metropoli industriale di Detroit, la capitale automobilistica del Paese e della mitica Motown Records, la culla dalla quale il vecchio blues rurale si stava trasformando nel rhythm’n’blues moderno.

In quest’alveo e in questo vibrante crogiuolo socioculturale la giovane Aretha crebbe, insieme a due figli (il primo avuto quando aveva appena 14 anni), la sua passione per la musica delle sue radici. Gospel e blues, soul e rhythm’n’blues, miscelati in modo sempre più accattivante anche per il pubblico dei bianchi.

La svolta avvenne dopo la metà dei ’60, in piena epopea beatlesiana. Una carrellata di successi memorabili che proseguì anche nelle decadi seguenti. La Franklin attraversò le mode e un’infinità di nuovi stili e nessuno riuscì mai a retrocederla dall’Olimpo degli immortali. Capolavori entrati a pieno diritto nella storia musicale del Novecento: come le formidabili Respect e Chains of Fools, e cover indimenticabili come Amazing Grace, la beatlesiana Eleonor Rigby, Bridge over trouble water sudi Simon & Garfunkel, e I say a Little Prayer di Burt Bacharach. Neppure l’avvento della disco riuscì ad appannarne l’appeal; anzi l’irresistibile partecipazione al leggendario film The Blues Brothers lo amplificò ancor più.

La sua paura di volare le impedì di fare grandi tour al fuori degli Stati Uniti, ma c’è ancora chi la ricorda ai Grammy del ’98 in una memorabile Nessun Dorma. Ricordo che l’invitammo a Roma in occasione del Grande Giubileo del 2000 per esibirsi davanti a papa Woytjla, e lei declinò a malincuore l’invito, ma volle rendersi comunque presente: s’esibì in diretta da New York, nel cortile del palazzo delle Nazioni Unite. Nel 2009 cantò alla cerimonia d’insediamento di Barack Obama, a sottolineare come per lei musica ed orgoglio razziale, emancipazione femminile e lotta per i diritti civili erano parte di un unico progetto esistenziale.

Aretha Franklin ha lasciato questo mondo da caposcuola indiscussa per generazioni di artiste: da Alicia Keys a Mary J. Blige, da Laureen Hill a Bejoncé. Ma anche molte colleghe bianche non hanno mai fatto mistero d’essersi ispirate a lei, comprese le nostre Giorgia ed Elisa. La sua incredibile estensione vocale, l’originalità dei suoi registri, la verve sul palcoscenico hanno lasciato al mondo performance indimenticabili, compresi un’infinità di duetti con le più grandi star planetarie. Aretha era in grado di spaziare dal jazz al pop con una naturalezza e un’energia impressionante. Molto, molto più di una cantante, anche se tale è rimasta fino alla fine, dando immensa ed inedita nobiltà ad un mestiere che prima di lei era considerato una cosa da poco.

Addio, grande indimenticabile Aretha. Ovunque tu sia la tua Voce – maiuscolo, sì – resterà con noi per sempre: nei nostri cuori più ancora che nelle orecchie.

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