Vinicio capossella

È un paradosso solo apparente il fatto che oggi certi prodotti discografici considerati di nicchia funzionino meglio di quelli concepiti per il grande pubblico. L’ennesima conferma è arrivata con recente ritorno di Vinicio Capossela, cantautore anomalo e orgogliosamente marginale, che s’è arrampicato in un attimo fino ai vertici delle classifiche di vendita nostrane. Ovunque proteggi (Cgd-Warner) non è un album facile. Tutt’altro. In parecchi episodi anzi risulta così impervio e orgogliosamente estraneo ai cliché contemporanei da apparire quasi urticante. Un po’ come può accadere col Paolo Conte più scontroso, o con certe anti-canzoni di Tom Waits, guarda caso da sempre, riferimenti primari del nostro. Più vicino alle atmosfere ruspanti del folk strapaesano che alle banalità platinate del pop radiofonico, il nuovo album del più personale tra i nostri cantautori sembra una compilation di ossimori: così demodè da risultare postmoderno, mistico e pagano insieme, popolano e coltissimo, capace di generare, spesso addirittura nello stesso brano, un senso di angoscioso struggimento e di sterminata tenerezza. Nato ad Hannover nel ’65, ma di origini pugliesi, Capossela è uno che se n’è sempre fregato delle regole e delle consuetudini del music-business. Anche per questo è caro a quanti non ne possono più delle ipocrisie buoniste dei cantautori da supermercato come dello sfarfallare narciso delle popstar. Artigiano dei suoni e delle parole, il nostro sembra avere in se stesso l’unico referente del proprio lavoro. E poco importa se, come accade in questo suo ultimo lavoro nutra la sua creatività spaziando (e spiazzando) dal cristia- nesimo pre-conciliare del brano d’apertura al Coppola tenebroso di Apocalypse Now, fino all’Edipo Re di pasoliniana memoria: giostrandosi tra borbottii ubriachi al lirismo estremo di un coro di cappella, e utilizzando con uguale destrezza la solarità mediterranea e festaiola di un Roy Paci, citazioni messicane, bandismi da festa patronale o il minimalismo chitarristico di Marc Ribot, un genietto sbilenco come lui. Un viaggio onirico e iperrealista insieme che sorvola la Russia e la Cina, i Balcani, la Cuba del cha-cha-cha, e le infinite sagre del Bel Paese. Come il più globale dei no-global. Settantadue minuti dove non sai mai cosa ti aspetta nel secondo successivo: foss’anche il muggito di un gregge o il beccheggiare d’una barca alla deriva, una sghemba ritmica rock, o i corni di un’orchestra sinfonica. Difficile immaginare un tale emporio di suggestioni finire nella suoneria di un telefonino… Ma che nell’era dell’ipod un disco come questo finisca in testa alle classifiche non può non dare un brivido di soddisfazione a tutti quelli (e sono sempre di più…) che nello sbilenco Vinicio han sempre cercato e trovato, più che la bellezza di una melodia, l’affinità elettiva che accomuna i perdenti per vocazione e i marginalisti per scelta: per tutti loro Ovunque proteggi è non solo nutrimento indispensabile per anima e orecchie, ma anche la più bella e completa delle rivincite. Richard Ashcroft Keys to the world (Emi) Il leader dei disciolti Verve, si conferma personaggio di primissimo piano dalla scena britannica odierna. In questa sua terza avventura in sala d’incisione sterza dal rock verso il cantautorato di marca chiaramente dylaniana. Dieci bellissime canzoni destinate a durare nel tempo. usica Leggera Isobel Campbell & Mark Lanegan Ballad of the brokenseas (V2) Strana coppia: lei stellina del folk-pop scozzese coi Belle & Sebastian, lui ruvido rocker statunitense, già leader di una band di culto come gli Screaming Trees. Ma il connubio artistico funziona alla grande: una dozzina di ballate a duetto, tenebrose come quelle del miglior Nick Cave, ma ammorbidite dalla dolcezza ambrata della voce di lei. Ideali per una serata accanto al fuoco d’un caminetto.

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