Tutto per bene

Martino Lori vive nel culto della moglie morta da sedici anni.
Tutto per bene

Martino Lori vive nel culto della moglie morta da sedici anni. Al seguito di Salvo Manfroni, prefigurazione di tanti politici potenti d’oggi, egli ha tratto dal protettore vantaggi di carriera. Ma una cosa non sa: sua figlia Palma è, in realtà, figlia di Manfroni. Peggio, è l’unico a non sapere, né sospetta a che siano dovute tante attenzioni del senatore per la ragazza prossima alle nozze. E tutti – Palma compresa – non solo sanno, ma credono che lui, pur sapendo, abbia sempre finto di non sapere: per vigliaccheria. Pirandellianamente: l’essere e l’apparire.

 

Quando Lori saprà – e sarà uno schianto, le cose non cambieranno di molto. Con altri risvolti imprevedibili tutto resterà così come è sempre stato. Niente di nuovo nella messinscena di Gabriele Lavia, regista e protagonista, che muta registro espressivo nei due tempi della vicenda – compunto, poi risoluto –, sempre con quella riconoscibilità di stile che non ce lo rende diverso da altre interpretazioni. Sul proscenio una gigantesca lapide; il resto s’apre su un sontuoso salone di vetri, tra tuoni e saette costanti. Un impianto dalle atmosfere ibseniane, dai personaggi in un interno borghese – con la brava Lucia Lavia, una figlia dal piglio severo –, che a tratti si muovono in ralenti all’indietro. Forse a voler fermare il tempo e recuperare un’altra vita.

 

Al teatro Argentina di Roma.

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