Se faccio sport, cresco?

Adolescenti e attività fisica. Se ne parlerà al congresso di Sportmeet. Intervista a Ezio Aceti.
sport basket

A dicembre, due squadre toscane del campionato “giovanissimi” (12 anni) vengono penalizzate (in punti e denaro) per non aver giocato una partita perché, poco prima dell’inizio, era morto il padre di uno dei ragazzini. Si dice che lo sport aiuti a crescere perché, tra le altre cose, insegna a rispettare le regole. È sbagliato dunque partecipare al dolore di un compagno?

 

Ezio Aceti è psicologo dell’età evolutiva, sempre più frequentemente interpellato, segno dei tempi, per accompagnare lo sport giovanile: «La punizione inflitta è una sconfitta alla persona, ai sentimenti più nobili e allo sport stesso. Ogni regolamento deve considerare la persona come primo riferimento per qualsiasi regola».

 

Allo sport è assegnata una valenza educativa: perché mai dovrebbe averla?

«Lo sport, con la pratica, le regole, i legami che crea, le esperienze sociali che offre, favorisce l’educazione al corpo, al sacrificio per raggiungere mete più alte, al gruppo e all’agonismo positivo».

 

In un suo libro lei definisce l’adolescenza «epoca delle speranze possibili».

«Occorre guardare ai ragazzi con uno sguardo di luce, in grado di cogliere potenzialità e bellezze: pensiamo alla loro intelligenza virtuale, alla loro ecletticità, alle masse di giovani mobilitate in questi giorni grazie a Internet. Così nello sport, quando sa mettere in moto corpo e anima».

 

In che modo lo sport può aiutare a maturare?

«L’immaturità sta nella non completa conoscenza della finalità delle emozioni e dei sentimenti che l’adolescente sperimenta. Lo sport favorisce padronanza delle proprie emozioni mediante l’esercizio della tolleranza verso le proprie sconfitte e col rispetto dell’avversario. E la figura dell’allenatore promuove processi di identificazione positiva nei confronti degli adulti: per questo è importantissimo che siano formati come educatori».

 

Molti giovani si lamentano dell’indifferenza nei loro confronti da parte dei genitori, dei professori, della società: lo sport offre occasioni di confronto, di lotta, di auto‑affermazione. È una strada positiva?

«Nella lotta sportiva – agonismo e sacrificio – si sperimenta la “bellezza” della frustrazione per un bene più grande. Il “segno” che i giovani attendono è la stima da parte degli adulti perché esistono e si stanno impegnando, indipendentemente dal risultato».

 

L’abbandono precoce dello sport, in media attorno ai 13 anni, è fenomeno preoccupante, per le conseguenze sul fisico e sulla psiche: esiste un rimedio?

«Tra famiglia, società sportive e amministratori dovrebbero riflettere sul fallimento del loro ruolo educativo ogni qualvolta un ragazzo abbandona. Il fattore principale è la “disarmonia educativa” fra queste agenzie. Occorre ricercare un co-interesse, una sinergia educativa che metta al centro i ragazzi: essi ci costringono a metterci insieme, questa è la loro grandezza. Ogni volta che non lo facciamo, loro soccombono. E questo è il nostro fallimento!».

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