Salomè, creatura aliena e narcisistica

Il regista Luca De Fusco mette in scena l’opera di Oscar Wilde. Una donna enigmatica e inafferrabile, la cui natura e il suo desiderio di amore e morte non trovano logiche spiegazioni

Cara all’immaginario simbolista, la figura di Salomè danzante per ottenere in dono la testa di Giovanni Battista, assume nelle mani di Oscar Wilde una serie di nuovi significati. Così mentre i contemporanei francesi ne enfatizzano l’aspetto esotico e perverso trasformandola in un simbolo decadente – il testo teatrale fu scritto originariamente in francese, alla fine del 1891 durante un soggiorno in quella stessa città –, Wilde, per sottolineare la misteriosa relazione esistente tra l’amore, il peccato e la sofferenza, fa della sua creatura una sorta di tragica figlia della passione.

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Vittima e carnefice insieme, Salomè sviluppa per la prima volta in modo compiuto la concezione wildiana secondo la quale la personalità umana fluttua necessariamente tra poli opposti di attrazione. Con la sua sottile e ambigua carica erotica, Salomè offre all’autore la possibilità di esplorare la relazione che s’instaura tra desiderio, follia e frustrazione dei sensi. E quell’aria di morte che fin dall’inizio aleggia intorno ai personaggi si trasforma in un oscuro presagio della catastrofe che incombe sull’intera vicenda. Nella messinscena di Luca De Fusco – che ha debuttato a giugno 2018 al festival Pompei Theatrum Mundi, e ora in tournée – l’atmosfera mortifera è data subito dalla scenografia tutta nera e dai 7 bianchi veli distesi collocati in proscenio e dove alcuni degli interpreti vi si sdraiano sotto come morti ancor prima dell’avvio della vicenda. La scena è sovrastata da un’enorme circonferenza sulla quale la proiezione di una crescente luna piena – mutevole nell’eclissi che avverrà, quindi, infine tinta di rosso – dominerà per tutto lo spettacolo segnando la livida atmosfera, quale presagio di eventi nefasti. A terra, un grande video rotondo speculare alla luna, restituirà l’immagine del profeta dando voce alle sue invettive verso Salomè, la madre Erodiade e il tetrarca Erode. Jokanaan sbucherà da una botola, tirato fuori dalla cella sottostante, e condotto alla presenza della giovane vogliosa di conoscerlo e del quale s’invaghirà follemente. Da lui rifiutata Salomè, con fanciullesca petulanza, chiederà la sua testa a Erode il quale, temendo il profeta e per non farlo decapitare, le promette ogni bene e ricchezza offrendole vesti preziose e gioielli, giurandole metà del suo potere, addirittura tutto, come a una meravigliosa regina. Ma lei lo incalzerà ripetutamente: «Voglio la testa di Jokanaan».

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È tale ossessione, di amore e odio contemporaneamente, a determinare l’allestimento, che ha come fulcro il tema del doppio. Rifacendosi, infatti, alle teorie dell’antropologo e filosofo francese René Girard che parla di «desiderio mimetico», De Fusco riassume che «Salomè ama talmente il profeta da volersi trasformare in lui stesso. Non può e non vuole uscire da una dimensione narcisistica dell’amore e quindi si specchia nel profeta». Di lui, attratta e sempre rifiutata, Salomè avrà prima elogiato e subito disprezzato il suo corpo, poi il suo volto, i suoi capelli e infine la sua bocca. Che diventerà il suo tormento – «Io bacerò la tua bocca, Iokanaan», ripete – fin quando la lambirà ma sulla testa mozzata che le sarà portata su un vassoio.

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E con un coup de théâtre, nella scena conclusiva, Salomè, a lungo sdraiata a terra dopo aver sensualmente sfregato la testa di Iokanaan sul suo corpo, ne estrarrà un’altra raffigurante la propria, baciandola. Ed ecco il rispecchiamento narcisistico predetto. Lo spettacolo, alquanto naturalistico, scorre senza particolari impennate e senza un forte concetto di regia che giustifichi oggi la sua messinscena. Ancor di più se la protagonista, Gaia Aprea, vistosamente truccata, non ha l’età di una giovane adolescente come invece richiederebbe il personaggio, la cui danza dei 7 veli, inoltre, risolta con semplici movenze e su una musica che ricorda il tango, non ha quella carica che possa suscitare in Erode un feroce immaginario erotico. De Fusco l’ha pensata come una creatura aliena vestendola tutta di bianco argentato e con la testa glabra ricoperta di pietruzze luccicanti – «Somiglia a un fiore lunare», dicono di lei i cortigiani al suo apparire –.

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L’andamento complessivo dell’allestimento, scandito dalle musiche di Ran Bagno, scorre tra proiezioni che ritraggono il volto di Iokanaan la cui apparizione in carne e ossa – nel ruolo Giacinto Palmarini – lo avvicina all’icona cristologica; e sequenze di dialoghi fitti tra i personaggi principali, cortigiani e farisei. A spiccare è l’Erode di Eros Pagni, triste e capriccioso – «Danza per la mia angoscia», dirà a Salomè –, umorale e distratto, che alterna toni sarcastici e nevrotici con l’autorevolezza del grande attore specie nel culminante monologo in cui elenca le sue ricchezze nel frenetico tentativo di convincere Salomè a desistere dall’idea, sentenziando, infine, per lei la morte dopo l’orrore al quale ha assistito. Accanto a lui Anita Bartolucci nel ruolo di Erodiade.

 

“Salomè”, di Oscar Wilde, traduzione Gianni Garrera, adattamento e regia Luca De Fusco, con Eros Pagni, Gaia Aprea, Anita Bartolucci, Alessandro Balletta, Silvia Biancalana, Paolo Cresta, Gianluca Musiu, Alessandra Pacifico Griffini, Giacinto Palmarini, Carlo Sciaccaluga, Francesco Scolaro, Paolo Serra, Enzo Turrin; scene e costumi Marta Crisolini Malatesta, disegno luci Gigi Saccomandi, musiche originali Ran Bagno, coreografie e aiuto regia Alessandra Panzavolta, installazioni video Alessandro Papa. Produzione Teatro Stabile di Napoli – Teatro nazionale, Teatro Nazionale di Genova, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro Stabile di Verona. A Roma, Teatro Eliseo, fino al 23/12.

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