Quando il cinema è poesia

Una volta tanto non si fa cinema d’azione, ma qualcosa che assomiglia allo stupore di chi sa ancora parlare di sentimenti, anzi metterli in versi. Qualche uscita da non perdere
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Abituato agli effetti speciali della saga blockbuster Rogue One – A Star Wars Story, che sta facendo il pieno di incassi, o a commedie brillanti e favolette nostrane come Mister Felicità, di e con Alessandro Siani, in uscita il primo gennaio, chissà se il nostro pubblico avrà voglia, una volta tanto, di ritornare al cinema, quello d’autore. Quello che ha una trama quasi ovvia, poche persone, scritto bene senza che uno se ne accorga e che parla di cose semplici e abitudinarie.

Anche di affetto, o di poesia. Ma in modo sobrio, quasi senza farlo vedere, perché uno lo possa scoprire ed essere felice. Magari è un medico condotto nella campagna francese, di quelli che quasi non esistono più: curano i pazienti come padri e fratelli, si interessano del loro privato con amicizia, danno buoni consigli per la vita e sono sereni. Succede ne Il medico di campagna di Thomas Lilti con Francois Cluzet che incarna il dottor Jean-Pierre, preciso e tranquillo. Sempre le stesse persone, le stesse cose, la stessa vita: il ritmo del quotidiano che va veloce con la dolcezza dell’abitudine a fare del bene senza ormai quasi accorgersene e intanto sfilano le sere e le aurore, le notti e le stagioni, la piccola comunità con i suoi piccoli guai. Finché il medico si prende il tumore, non vorrebbe aiuti, ma deve pur cedere. È la vita.

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Poesie di battute, di fotografie della natura, di un uomo che ha il figlio a Parigi e vive da solo, senza traumi. Di gente legata alla terra e al buonsenso. Tutto umano, molto umano, questo è un cinema per uomini e donne semplici, senza star. Perché essi non ne hanno bisogno e il cinema lo dice con calma. È poesia piana, ma che pian piano emoziona, mentre il racconto va avanti ed uno se ne accorge quasi d’improvviso che ne abbiamo bisogno. Lo continua a dire e a dircelo la coppia di innamorati giovani che vive nel New Jersey a Paterson, la città cantata dal poeta William Carlos Williams.

Siamo in un ambiente che ricorda l’aria di certe poesie pascoliane e di Gozzano. Lui guida gli autobus, è calmo, abitudinario, non ha il cellulare, ogni sera porta a spasso la cagnetta dispettosa, si fa una birra al bar. Negli intervalli scrive poesie in un taccuino riservato. Non è una novità: anche Montale scriveva poesie sulle ricevute del ristorante o Brahms inventava le melodie allacciandosi le scarpe la mattina. Lui, che di cognome fa proprio Paterson come la sua città, è il contrario della moglie, allegra, spiritosa, inventiva.  Si amano molto, parlano di Petrarca e di Dante, lui le legge le poesie, lei insiste che le pubblichi (“sono un dono per l’umanità”: vero, ogni poesia lo è), ma lui non si decide. Non si monta la testa, ama il lavoro, la pace, i bambini. Ma dentro di sé è un mondo di osservazioni, di emozioni, di riflessi e di gioie. Anche di pene. Tutto naturale, semplice, anche gli imprevisti dolorosi che però non tolgono la spinta per la poesia. Non la possono togliere a chi ce l’ha nel sangue e nel cuore.

In questo film, Paterson, che Jim Jarmusch, regista indipendente Usa, gira con gli splendidi Adam Diver e Golshifteh Farahani – osannato a Cannes – non succede in apparenza nulla, come nel precedente. Eppure succede di tutto, dentro di lui e di lei. E anche dentro di noi, perché il racconto è cinema di impercettibili sfumature, di crescendo emotivi bellissimi: è la vita che aspetta di essere scoperta. Una volta tanto non si parla dei grandi scrittori come Hemingway o Rimbaud, non si fa cinema d’azione, ma qualcosa che assomiglia allo stupore di chi sa ancora parlare di sentimenti, anzi metterli in versi. Siano le frasi sobrie del medico francese come le poesie dell’autista americano.

La cosa sbalorditiva di questi film è che – specie il secondo – narrano addirittura il processo poetico, ossia come nasce una poesia, come si sviluppa e come si definisce fino al punto di poterla leggere. Non si parla ovviamente di questo, perché i film scorrono con piacere, ma ce ne accorgiamo dopo, ripensandoci con l’aria serena che ci trasmettono i registi che amano i sentimenti naturali, la bellezza delle piccole cose di ogni giorno. In fondo, è questione di cinema d’autore, o meglio, di amore.

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