Povertà, futuro e reddito di cittadinanza

Mentre continua il dibattito, alcune voci autorevoli chiariscono i termini veri del problema: è il lavoro che crea dignità, non i sussidi; non va bene l’approccio paternalistico; è sbagliato ritenere i poveri inaffidabili e moralmente deboli; promettere tutto a tutti è solo frode elettorale.

Dopo la battuta, criticata e derisa sui social, fatta da Luigi Di Maio, «Con questa manovra aboliremo la povertà» – che invece giudicherei un’innocente sproporzione, come quella di un bambino che si crede grande e forte –, avrei avuto il desiderio che si accendesse un dibattito serio sulle misure e i metodi credibili per combattere il dislivello sociale sempre crescente dappertutto e anche nel nostro Paese.

Invece occorre sempre ricorrere ai soliti “esperti”, anche se oggi la competenza – battuta dalla rete, dal dott. Google e dal prof. Wikipedia – sembra essere più un difetto che occasione di crescita per tutti.

Allora inizierei da colui che, proprio dal nuovo santo Paolo VI, ebbe il compito di creare la Caritas, il “braccio operativo” della Chiesa nell’ambito dell’attenzione agli ultimi, l’indimenticabile e indimenticato don Giovanni Nervo, il quale aveva sempre chiaro una parola d’ordine: «La Giustizia è il primo passo della Carità». Inoltre amava sottolineare che «Caritas, carità, non vuol dire elemosina. C’è il rischio di un grave equivoco, perché anche all’interno della Chiesa è diffusa questa interpretazione. Invece Caritas vuol dire altro, bisogna tornare al suo vero significato che è Amore: È questo il termine squisitamente umano e cristiano pur se ormai esposto a numerosi equivoci. Fare la “Carità” vuol dire esprimere nei fatti l’Amore. Occorre tenerlo presente. Sui termini, occorre sempre capirsi e fare attenzione. Ad esempio solidarietà non sempre significa altruismo».

Quindi anche nei tempi in cui questi concetti si vorrebbero declinare in Reddito di Cittadinanza, Reddito di Inclusione o Reddito di dignità occorre tener presente che nel nostro Paese, negli ultimi anni, sono stati destinati circa 19 miliardi ai trasferimenti per il reddito. Con quali risultati? L’Italia, in Europa, è il Paese che dà più trasferimenti con meno servizi. Siamo dunque incapaci di aiutare i poveri a uscire dalla condizione di povertà. In una parola: siamo assistenzialisti.

Dopo aver interpellato un esperto che ci guarda da lassù, vediamo cosa dicono altri “esperti” che ci sono ancora affianco. Iniziamo con i carati alti, con papa Francesco, che in un’intervista al Sole 24Ore afferma: «L’attuale centralità dell’attività finanziaria rispetto all’economia reale non è casuale: dietro a ciò c’è la scelta di qualcuno che pensa, sbagliando, che i soldi si fanno con i soldi. I soldi, quelli veri, si fanno con il lavoro. È il lavoro che conferisce la dignità all’uomo non il denaro (…) Il lavoro crea dignità, i sussidi, quando non legati al preciso obiettivo di ridare lavoro e occupazione, creano dipendenza e deresponsabilizzano».

Poi passiamo a Chiara Saraceno, sociologa e già Presidente della Commissione governativa per gli studi sulla povertà, che in un articolo su Repubblica afferma «che siano 8 o 10 i miliardi che alla fine saranno destinati al reddito di cittadinanza, si tratta sempre di una cifra di gran lunga superiore a quanto nessun governo italiano abbia mai impegnato per il contrasto alla povertà. Lo stupore, a mio, parere, sta nel modo in cui Di Maio e compagni stanno ridefinendo il cosiddetto reddito di cittadinanza. Dopo avergli dato un nome che, intenzionalmente o meno, consentiva fraintendimenti — un reddito dato a tutti, in modo incondizionato — ora si ripromettono di trasformarlo in uno strumento non solo, come era già dall’inizio, selettivo, cioè destinato ai poveri, anche se con qualche confusione e incertezza su come identificarli, ma fortemente paternalistico.

Non verrà concesso in moneta liquida, ma su una carta di debito. Potrà essere speso solo su suolo italiano, in esercizi italiani e possibilmente per prodotti italiani. Non potrà essere speso per consumi voluttuari, immagino definiti da apposita commissione etica, e nemmeno risparmiato. Ciò che non si spende della somma mensile assegnata verrà perso, come i minuti e giga dei contratti dei cellulari.

Dietro questo approccio c’è l’antica idea che i poveri siano inaffidabili, moralmente deboli. Lasciati a sé stessi, invece di comprare latte e scarpe per i bambini e pagare l’affitto, si darebbero al bere e al gioco d’azzardo o alle spese pazze. Vanno messi sotto tutela. Riceveranno reddito in cambio di cessione di cittadinanza».

Ultima voce che ha voluto contribuire al dibattito è quella di uno tra i massimi esperti in tema di welfare e contrasto alle povertà, Tiziano Vecchiato, direttore della Fondazione Zancan e membro di Social One, che in un’intervista al periodico Vita sottolinea: «Il gioco delle parti paralizza la ragione. Chi ha competenze scientifiche, le usi. Non le pieghi all’ideologia. Ma soprattutto: fermiamoci, resettiamo tutto e torniamo ai fondamentali. Non è una questione di colore politico. Bisogna però tornare al cuore del problema, non fermarsi ai margini. Dobbiamo chiarirci se vogliamo aiutare chi è in condizioni di povertà a convivere con questa condizione e, quindi, fare il “classico” assistenzialismo: fatto che in sé non è il male, ma non è nemmeno il meglio possibile».

Vecchiato poi mette il dito sulla piaga: «In Italia le pratiche sono sempre state da anni e anni i trasferimenti economici, ma la povertà non si è ridotta di un millimetro. E badiamo che spendiamo 19 miliardi di extra-spesa rispetto a quella normale dei comuni, che ogni anno hanno a disposizione 7 miliardi per aiutare chi è in povertà e fare altre attività di assistenza sociale. Ci si perde sui fattori aggiunti e sulle componenti di input tecniche, non sulla strategia. Serve una capacità vera. Ad esempio: mancano 3 mila assistenti sociali, per intermediare a dovere e con competenza le risorse. Ma siccome oggi remunera molto in termini elettorali promettere e promettere a tutti, allora ci si ferma qui. Con uno sperpero di risorse ed energie immane.

Si usano linguaggi diversi, ma quei linguaggi parlano di un breve, brevissimo termine. Nessuno investe nel futuro e, non a caso, i tassi di povertà pesano sulla fascia 0-40, ossia sulla fascia di popolazione che dovrebbe mettere al mondo figli e farli crescere. Viviamo in una società incapace di guardare la vita e coltivare il futuro».

Concludo con alcune parole di papa Francesco, prese dal messaggio per la 2a Giornata Mondiale dei Poveri che si celebrerà il 18 novembre prossimo dove, commentando il Salmo 34 – Questo povero grida e il Signore lo ascolta – estrapola tre verbi su cui riflettere: Gridare (dei poveri) rispondere (ai poveri) liberare (i poveri). Ri-iniziamo da qui?

 

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