Perché Bush è stato rieletto?

Perché l’America ha rieletto George W. Bush? Fin dall’inizio della campagna elettorale, si sosteneva che queste elezioni sarebbero state anomale. La tragedia dell’11 settembre, infatti, avrebbe trasformato la politica estera – tradizionalmente snobbata dall’elettore medio – in una variabile importante per la decisione elettorale. Fin dal principio, si affermava che l’economia non sarebbe più stata la regina delle priorità. In effetti, la guerra in Iraq e il terrorismo sono stati senz’altro tra gli argomenti in cima ai pensieri degli elettori, ma non sono stati decisivi per la rielezione di Bush. Per comprendere la sua vittoria, bisogna fare lo sforzo di andare dietro le quinte della sua campagna elettorale. Il successo di Bush ha un nome e cognome: Karl Rove. È lui lo stratega di Bush per la politica interna, ed ha cominciato la sua carriera come procacciatore di ingenti finanziamenti per le costosissime campagne elettorali dei repubblicani. All’indomani della risicata e anche contestata vittoria di Bush del 2000, Karl Rove aveva fatto quattro calcoli e compreso immediatamente che mancavano all’appello le preferenze di 4 milioni di evangelici che avrebbero potuto votare per Bush e che non si erano recati alle urne. Di qui la doppia strategia dettata da Rove: promuovere politiche ed un messaggio che raggiungesse il cuore più conservatore e religioso degli Stati Uniti, ed allo stesso tempo coinvolgere la vasta rete di chiese, associazioni e parrocchie per motivare questa ben individuata e preziosa fetta di elettorato. A questo compito si è dedicato in particolare Ralph Reed, attivo politicamente da quando era uno studente universitario più di vent’anni fa. Reed è il fondatore della Coalizione Cristiana che nel 1997 contava 2000 sedi e quasi due milioni di membri. Fu grazie ai suoi sforzi che nel 1994 – quando presidente era il democratico Bill Clinton – i repubblicani conquistarono la maggioranza in Senato. In quel tempo uno studio rilevava che per l’88 per cento degli evangelici bianchi che si reca regolarmente in chiesa, il valore della famiglia era la priorità in campo politico. Nelle elezioni del 2004 alla strategia di Rove hanno risposto bene il 52 per cento dei cattolici, il 59 per cento dei protestanti ed il 78 per cento dei cristiani rinati, una galassia della destra religiosa che raccoglie persone convertite al cristianesimo da una vita dissoluta o di indifferenza. Lo stesso presidente Bush – come del resto anche Jimmy Carter – è un cristiano rinato. La campagna elettorale repubblicana si è spostata sempre più dai temi legati alla sicurezza e all’economia, a quelli legati all’etica individuale, scollegata però dalla preoccupazione per la giustizia sociale e la pace internazionale. Aborto e matrimonio gay sono diventati improvvisamente i temi dominanti della campagna elettorale, che da un referendum di approvazione o meno per l’operato di Bush, si è trasformato in un referendum su alcuni valori della morale individuale. Così John Kerry, agli occhi soprattutto dei conservatori, non era più solo un democratico che in politica aveva votato tutto ed il contrario di tutto, ma era diventato anche un temibile liberale del Massachussetts, nemico della vita e della famiglia (e ciò nonostante lui più volte si sia dichiarato personalmente contrario sia all’aborto che ai matrimoni tra persone dello stesso sesso). Queste elezioni – mi diceva a due settimane dal voto un imprenditore cattolico impegnato – è una vera lotta tra cielo ed inferno, dove naturalmente il paradiso era Bush e l’inferno era Kerry. Il potere della ribellione conservatrice è innegabile – osserva Thomas Frank, autore di un libro sul movimento conservatore in America -. Ha un modo di parlare della vita in cui tutti siamo vittime di una super-classe arrogante – i liberali – che fanno i nostri film, pubblicano i nostri giornali, insegnano ai nostri figli, e impartiscono lezioni dal pulpito. Questi liberali ci dicono come dobbiamo condurre le nostre vite, senza nessuna considerazione dei nostri valori e delle nostre tradizioni. Il successo dei repubblicani nasce dunque dall’abilità di mescolare valori religiosi con il potente e ricchissimo mondo degli affari. Il messaggio della campagna elettorale di Bush ha trovato un’eco profonda nelle chiese e nelle organizzazioni evangeliche, ma anche cattoliche. La domenica precedente le elezioni, un volantino che affermava che la questione dell’aborto non è negoziabile, era stato distribuito a milioni di fedeli in tutti gli Stati Uniti. Questa posizione che ha privilegiato l’etica individuale (aborto e matrimoni gay), sacrificando l’etica sociale e internazionale (come gli appelli alla pace del Papa), ha contribuito in maniera significativa e determinante alla vittoria elettorale di Bush. Quello dunque a cui si è assistito durante le ultime presidenziali negli Stati Uniti, non è stato un confronto tra alternative politiche economiche o estere. Il dibattito politico solo in parte è stato caratterizzato da uno scontro di classe, tra ricchi e poveri, o tra maggioranza bianca e minoranze di colore. Sia ricchi che poveri hanno votato per Bush, così come – sia pure in percentuali diverse – lo hanno votato bianchi, ispanici e afro-americani. Il confronto, invece, è stato tra due visioni distinte ed opposte del mondo e delle sue relazioni. Sull’economia e sulla politica estera, ha dunque prevalso l’ideologia o, quella che qui negli Stati Uniti, chiamano culture war. Come osservano nel loro eccellente The Right Nation i giornalisti dell’Economist John Micklethwait e Adrian Wooldridge, in nessun altro paese la destra è caratterizzata così tanto da valori piuttosto che dalla classe di appartenenza. La cultura dei conservatori Negli ultimi quarant’anni, l’America ha subìto una profonda trasformazione, e il conservatorismo si è espanso imponendosi sia culturalmente che politicamente. Non è stato sempre così. Negli anni Cinquanta l’America non possedeva una vera e propria ideologia di stampo conservatore. Il termine conservatore era assente dal lessico politico, ed era considerato un insulto. Il repubblicano Herbert Hoover amava dichiararsi un autentico liberale. Quando Dwight Eisenhower conquistò la presidenza nel 1952, la destra americana era in fase calante. Negli anni Sessanta i progressisti americani speravano di trasformare gli Stati Uniti in una nazione più europea. In quegli anni l’appoggio per la pena di morte era solamente del 43 per cento (oggi supera il 70 per cento). John Kennedy si vantava di aver studiato alla London School of Economics e di essere stato uno studente dell’autorevole professore marxista Harold Laski. L’America guardava all’Europa ed al suo sistema sociale. Erano i tempi della Grande Società di Lindon Johnson e della sua guerra contro la povertà. A quel tempo – spiega a Città nuova il politologo Benjamin Barber – i repubblicani hanno capito che bisognava dedicare il tempo di una generazione ad un profondo esame della loro identità. Hanno creato thinktanks e giornali, e si sono spesi non per degli interventi di cosmesi, ma per ripensare che cosa significava essere conservatori. In quegli stessi anni (era anche l’epoca del movimento per i diritti civili ed il loro decreto firmato nel 1964) il partito democratico virò a sinistra, alienando non solo il voto di tanti bianchi nel sud, ma anche di tanti lavoratori. Il progetto della Grande Società non era riuscito a mantenere ciò che prometteva. I liberali hanno condotto una guerra contro la povertà – era solito dire Ronald Reagan – e la povertà ha vinto. Col tempo i progressisti hanno eroso il loro consenso e i democratici sono riusciti a riguadagnare la Casa Bianca nel 1992 con Bill Clinton solo allineandosi con i valori propri della destra. Oggi negli Stati Uniti è presente un movimento conservatore, con solide radici nella destra religiosa cristiana, ed in cui – come osservano gli autori di The Right Nation – il centro di gravità dell’opinione americana è molto più spostato a destra. La rielezione di George Bush è un fatto significativo, perché in un tempo di incertezze internazionali, rileva quanto i valori identitari sono importanti oggi per mobilitare e organizzare le minoranze culturali. Chi non riesce a proporre valori e idee politiche capaci di impegnare ed appassionare, corre il rischio di perdere. Comprendere queste dinamiche può dunque favorire non solo analisi politiche più precise, ma anche aiutare a concepire politiche per la promozione di una cultura del dialogo e di una politica della fraternità. La sfida del presente La povertà può certamente incoraggiare quella frustrazione sulla quale fanno leva i promotori del terrorismo e delle guerre etniche che insanguinano il mondo. Ma la causa vera di tanta violenza oggi – come osserva Walter Laqueur dell’autorevole Centro di Studi Internazionali e Strategici – è soprattutto intellettuale e culturale. La profonda trasformazione in atto nel mondo, e la realtà transnazionale nella quale viviamo oggi, è anche il frutto di un intreccio tra immaginazione e movimento. Se prendiamo in considerazione gli effetti culturali della globalizzazione, possiamo dire che negli ultimi due decenni l’intreccio tra migrazione dei popoli e media elettronici hanno influito sull’immaginazione e la definizione che abbiamo sempre dato di vicinato, nazione, e dell’essere una nazione. Mezzi di comunicazione e migrazione dei popoli hanno prodotto quello che l’antropologo di origine indiana Arjun Appadurai definisce una sfera pubblica in esilio. È spesse volte – e troppe volte in senso negativo – l’immaginazione, la visione che si ha dell’altro e della realtà, che si trasforma in capacità di mobilitazione e d’azione. La sfida del presente è quella di passare da una cultura dove l’altro, il diverso, è un nemico, ad una cultura del dialogo e della condivisione profonda. Da lì può ripartire il rinnovamento della politica e della cultura. Fino a quando ci chiudiamo nelle nostre identità, la fraternità farà fatica a sprigionarsi e anziché più unito, il mondo potrebbe essere più diviso. È anche questa la lezione che può essere appresa dalle ultime elezioni presidenziali negli Stati Uniti, che oggi sono una società profondamente divisa. Non a caso John Kerry nella sua telefonata al presidente Bush, gli ha lanciato un accorato appello all’unità; e quest’ultimo, appena rieletto, ha dichiarato di voler essere il presidente di tutti gli americani. Vedremo se i fatti andranno in questa direzione

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