Palestina: il sì dell’Unesco

Quando lo scorso settembre il presidente dell’Autorità palestinese chiedeva l’ammissione all’Onu, tutto aveva sapore di rivincita.
Murales inneggiante all'Intifada

Quando lo scorso settembre il presidente dell’Autorità palestinese chiedeva l’ammissione all’Onu, tutto aveva sapore di rivincita. Rivincita verso Israele a cui si ricordava la condizione di Gerusalemme, i territori occupati, gli insediamenti dei coloni e lo slogan: “Una terra due Stati”. Rivincita di una parte dell’Olp, il gruppo di Al-Fatah, sui palestinesi di Hamas, maggioritari nella Striscia di Gaza. Gli esiti restano legati non solo al dato politico, ma alle regole internazionali che richiedono agli Stati un’indipendenza visibile, fatta di territorio e di confini, non solo di sovranità.

 

Meno noto il negoziato nell’Unesco, concluso il 31 ottobre con l’ammissione della Palestina. La reazione di Israele (accelerazione degli insediamenti dei coloni, considerandolo «un diritto e non una punizione»), o degli Usa (blocco dei contributi, il 22 per cento del bilancio), è stata rapida. Alla domanda perché l’Unesco e non un’altra delle 18 agenzie specializzate delle Nazioni unite, la risposta è ormai chiara: assicurare uno status internazionale al patrimonio artistico amministrato dall’Autorità palestinese aderendo alla Convenzione sul patrimonio culturale mondiale del 1972. A partire da Betlemme, visto che già lo scorso febbraio, i palestinesi avevano chiesto l’iscrizione della chiesa della Natività nel registro del patrimonio culturale dell’umanità, con la motivazione: «Casa natale di Gesù Cristo». Nel giugno 2012 a San Pietroburgo la decisione, ma con una Palestina legittimata.

 

Il ruolo dell’Unesco non è nuovo, specie dopo la legge israeliana che ha dichiarato siti di interesse nazionale alcuni simboli comuni alla religiosità ebrea, cristiana e musulmana, come la moschea di Abramo, le tombe dei patriarchi a Hebron e la tomba di Giuseppe a Nablus. L’organizzazione, già nel 2009, su richiesta palestinese, indicò come moschea di Bilal ibn Rabah (cugino del profeta) quella che per gli ebrei è la tomba di Rachele. Poi intraprese scavi archeologici lungo il Giordano, considerati da Israele una limitazione delle proprie radici. L’uso politico e strategico dei luoghi santi non è nuovo in Terra Santa. Lo è la riduzione a semplici siti di rilevanza turistica di quelli che per ebrei, cristiani e musulmani sono invece testimonianze della loro fede.

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