Pagano gli ultimi degli ultimi

La crisi economica colpisce le spese sociali che sostenevano le categorie di cittadini più sfavorite.
Manifestazione handicap

La crisi economica non la pagano tutti allo stesso modo. Anzi. Partiamo da un esempio, quello del settore private wealth management della Deutsche Bank dedicato ai cosiddetti “paperoni”, i privati cioè che hanno un patrimonio da investire pari almeno a due milioni di euro. Un’area che nel 2010 non solo non è diminuita, ma anzi ha visto una crescita del 20 per cento in Italia. Un fenomeno che si spiega solo in parte con i capitali rientrati grazie allo scudo fiscale.

 

Spostiamoci a Cairo Montenotte, in Liguria, negli uffici del comune dove, a febbraio, un utente al colmo della disperazione ha preso un machete e ha infierito contro un assistente sociale. Un episodio che dice la mancanza di sicurezza a cui sono esposti gli operatori chiamati a fronteggiare l’emergenza sociale che cresce senza avere risorse e strumenti per agire e neanche per difendersi.

La cronaca scava sui dettagli, mentre la vera notizia è quella che riguarda la «mannaia sul sociale» come recita il titolo di un intervento di Francesco Marsico sul mensile di gennaio di Italia Caritas. Numeri alla mano, il vice direttore nazionale della Caritas illustra la riduzione della dotazione dei dieci fondi statali dedicati al welfare passati da due miliardi e 520 milioni di euro nel 2008 ai 349 milioni di euro del 2011. Una tendenza verso la decrescita che si accentuerà fino al 2013 e che prevede, ad esempio, l’azzeramento del Fondo per la non autosufficienza.

 

La notizia è passata sotto silenzio e non c’è neanche la scusante della guerra in Libia o della paura atomica che viene dal Giappone. Diverse associazioni avevano lanciato il grido di allarme da metà del 2010 davanti a una legge di stabilità finanziaria che ha prodotto il taglio delle risorse per le politiche sociali di quasi l’80 per cento. La campagna “I diritti alzano la voce” promossa da 25 organizzazioni del volontariato e del terzo settore non ha avuto lo stesso successo di quella promossa per difendere il mantenimento del 5 per mille dell’Irpef da riservare ad un vasto numero di organizzazioni di vario tipo, non solo di tipo umanitario.

 

Eppure le misure per contrastare la povertà sono quanto mai urgenti come ha dimostrato il voluminoso Rapporto 2010 della Commissione nazionale di indagine sull’esclusione sociale. Ai tre milioni di italiani che continuano a rimanere nella condizione di povertà assoluta si aggiunge un’altra decina di milioni diventati «vulnerabili» o in condizioni di «strutturale precarietà», dove basta una spesa improvvisa per cadere in uno stato di bisogno dei beni elementari come il mangiare o il vestirsi.

 

Ma i poveri non sono una categoria organizzata e neanche organizzabile e perciò difficile da rappresentare. Ci hanno provato, per dare voce ai “senza lobby”, le Acli con la proposta al ministro del Welfare di un “Piano nazionale triennale” contro la povertà assoluta con risorse recuperabili all’interno del bilancio attuale, cioè senza aumento della spesa pubblica. Ma la risposta è stata ancora negativa.

Secondo Marsico, da noi interpellato, non si può giustificare la riduzione dei fondi sociali nazionali affidandosi alla prospettiva del federalismo fiscale perché la politica sociale, secondo il modello europeo, deve avere sempre un livello nazionale che definisca e assicuri i livelli essenziali di prestazioni sociali uguali per tutti (ancora inesistenti, tra l’altro, in Italia). Se ne è accorta la Francia che, dopo i primi esperimenti negli anni Ottanta, ha scelto la via di tutele sociali uniformi a livello nazionale per le forti sperequazioni che si erano prodotte a livello locale.

 

Tra i dieci fondi decurtati c’è quello delle politiche per la famiglia, che passa dai 346 milioni di euro del 2008 ai 31 del 2013. Sembra che verrà ripristinato dopo le proteste del sottosegretario Giovanardi. E tuttavia, proprio adottando la prospettiva complessiva della famiglia, occorre uno sguardo globale capace di affrontare la tesi prevalente che vede ineluttabile la riduzione di spese del welfare di fronte ad un pesante debito pubblico.

 

Le spese sociali, invece, non sono un lusso o una concessione per “chi è rimasto indietro”, ma un investimento necessario per rimediare all’inefficienza di una certa logica economica incapace di creare vera ricchezza, se non per alcuni.

«E se in quel giorno (del giudizio finale) mi venisse fatto cenno di altre tecniche economiche?», si chiedeva La Pira nel 1952. Temeva la «pigrizia mentale» davanti alle domande angosciose di chi gli stava di fronte.

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