Oltre il naufragio

La testimonianza del cappellano di bordo della Costa Concordia, don Raffale Malena.
La nave costa concordia

Arrivare all’isola del Giglio non lascia indifferenti. Si respira la tragedia. Assistere da vicino all’agonia della balena bianca, l’immensa nave Costa Condordia, è uno spettacolo terribile tanto è vicina alla terra, tanto appare sospesa in un’altra dimensione. È la stessa precarietà della vita che rimbalza nelle notizie di questi giorni.

Non dorme dal giorno del naufragio, don Raffaele Malena, cappellano di bordo della Costa Concordia. La notte diventa per lui un film muto in cui rivede le scene drammatiche di migliaia di persone in preda al panico e al terrore. Ricorre sempre l’immagine di una bambina che è riuscito a salvare.

 

In quei momenti l’istinto di sopravvivenza è talmente forte che prevalgono gli impulsi più bassi. «Il panico – ci racconta –, quando la nave ha cominciato a inclinarsi, era talmente indescrivibile che la gente sembrava come impazzita. C’erano due persone in carrozzella che nessuno soccorreva. Mi sono messo a spingere per cercare di avvicinarli alle scialuppe e c’è stato chi mi ha risposto: “Questi possono pure morire”». Una bambina di cinque anni, caduta a terra, nessuno l’aiutava, don Raffaele ha urlato a squarciagola, come un ossesso, pur di fermare le persone. L’ha presa in braccio, baciata. Nel frattempo è arrivata la mamma e le ha fatte salire sulla scialuppa. Entrambe si sono salvate. «Non sono persone da giudicare, perché il frangente è eccezionale, ma ho assistito anche a queste scene».

 

Poi la pena infinita. All’1.30 è stato chiamato al porto per benedire le salme. Ha visto una signora francese morta, poi, il colpo al cuore. Accanto a lei ha riconosciuto un uomo dell’equipaggio, deceduto, che conosceva bene perché da 20 anni svolgeva la sua opera sulle navi, ha costruito centinaia di rapporti personali di amicizia e di fiducia entrando nella vita di tante persone che lavoravano a bordo. E, accanto, un altro cadavere di un altro membro dell’equipaggio. «Era dato per morto, poi, di colpo si sono accorti che ancora respirava – aggiunge don Raffaele ancora in preda a una viva emozione –; gli hanno fatto il massaggio cardiaco e si è ripreso come un morto resuscitato». Lui stesso, che ha compiuto 73 anni, a un certo punto ha creduto di morire. Sotto la nave inclinata c’era uno zatterino. Don Raffaele è sceso da una scala che, nel buio, pensava a pioli, invece era a corda. «Son rimasto sospeso nel vuoto, a oscillare a 25 metri di altezza, non ce la facevo più, ero stanchissimo e stavo svenendo. Un ufficiale di bordo mi ha aiutato».

 

Il suo giudizio sul comandante Schettino non è così negativo come appare sui media e lo ritiene un brav’uomo. Ha compiuto degli errori imperdonabili: l’impatto sullo scoglio e l’abbandono della nave, ma ha cercato di salvare l’equipaggio e la nave con quella manovra azzardata, dopo l’urto che è stato violentissimo, tanto che don Raffaele è caduto a terra. Fatto sta che, solo pochi minuti dopo l’impatto, ha incontrato il direttore macchine in sala macchine, che gli ha detto che stavano morendo tutti perché i ponti A, B e C erano pieni d’acqua e i cavi della luce elettrica erano segati come da un’accetta. I motori, infatti, erano fermi e la luce spariva. Secondo i suoi ricordi, dopo circa 50 minuti dall’impatto, avvenuto alle 21.42, sono iniziate a scendere le scialuppe, mentre l’ordine dell’abbandono della nave è stato dato dal capitano Bosio, che era sull’imbarcazione come semplice passeggero ma che, evidentemente, ha avuto la lucidità di prendere quella decisione.

 

Ma il dolore più grande resta la perdita dei membri dell’equipaggio: «Li sto piangendo e, ormai, non spero più che ritrovino i dispersi. Io vivevo con loro, li conoscevo uno per uno, provenivano da situazioni difficili e venivano sulla nave solo per lavorare. Mi vengono tutti in mente: la barista, la cameriera, Thomas, tutti ragazzi giovani che non ci sono più. Con alcuni di loro avevamo organizzato una festa di Natale. Una signora aveva perso il marito, per fortuna lo hanno ritrovato il giorno dopo. Un ragazzo che lavora al casinò si è buttato a mare. Stava morendo, ma sono riusciti subito a salvarlo. Sono corso subito dai colleghi per avvisarli della buona notizia».

 

A un certo punto don Raffaele è corso nella cappella della Costa Concordia e ha chiesto a Gesù il miracolo, affinché ne morissero il meno possibile. Gli sembra che Gesù lo abbia ascoltato perché così, nonostante la tragedia, è stato. «La cosa più bella della vita – conclude – è salvare una vita umana».

Ora don Raffaele è a Cirò Marina dai suoi parenti per riposare: «Mi devo riprendere dal trauma, ma mi rimbarcherò». Non abbandona il suo equipaggio.

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