Nel canyon delle Valli Cupe

Calabria jonica: le pendici selvagge dell’altopiano silano racchiudono un monumento geologico di rara bellezza

«Guardate cosa ho trovato!» esclama Riccardo, mostrando qualcosa sulla palma della mano agli altri escursionisti. È una rana microscopica color verdolino, che lui subito dopo depone nelle acque limpidissime di un torrente: adesso appena un rivolo d’acqua serpeggiante sul greto sassoso, ma che si gonfierà d’improvviso con le prime piogge. «È la rana italica, una specie rara e protetta che condivide questo habitat insieme ai granchi e alle bisce d’acqua», spiega Alfonso Pappalardo di “Segreti mediterranei”, cooperativa con sede nel comune di Sersale dal quale siamo partiti per visitare Valli Cupe. Ora la nostra guida attira l’attenzione su un esemplare di quello che è un vero e proprio fossile vivente: la Woodvardia radicans, uno dei quattro tipi di felce preistorica esistenti in Calabria, una rarità botanica che prospera grazie al microclima subtropicale di qui.

Dopo oltre un chilometro di discesa, attraversando boschi di querce, sugheri e roverelle, alternati a frassini, pini d’Aleppo, profumati allori e a distese di vegetazione mediterranea, siamo giunti in fondo a questo lembo della Sila Piccola catanzarese, ora Riserva naturale regionale: un contesto naturalistico, storico e culturale tra i più affascinanti non solo della Calabria, ma dell’intera Penisola. E ancora poco noto, visto che il naturalista belga John Bouquet l’ha definito «il segreto meglio custodito d’Europa».

Situato nella fascia mediterranea jonica tra i 300 e i 500 metri sul livello del mare, è un vero paradiso incontaminato di dirupi a strapiombo, di alberi monumentali, di ruscelli e cascate, percorribile a piedi o anche a dorso d’asino e di cavallo lungo itinerari diversificati per ogni tipo d’interesse e di età. Il suo gioiello? Il canyon lungo una decina di chilometri che da Monte Raga si snoda fino a Monte Crozza, offrendo scorci che in certi punti ricordano il paesaggio anatolico. Anche al sedentario non abituato a certe escursioni, la fatica richiesta per scendere fin qui e quella che lo aspetta per risalirne è ampiamente compensata dalla spettacolarità del sito.

Ma perché il nome Valli Cupe? Le pareti di questo canyon in conglomerato di arenaria – unico esempio del genere in Italia si ergono fino a 130 metri e in molti punti si avvicinano intercettando la luce solare, per cui il percorso è tutto in ombra e offre una frescura particolarmente gradita d’estate. Noi percorreremo solo un tratto di questa ferita nella roccia larga neanche dieci metri, avendo cura di parlare a bassa voce per evitare che le onde sonore siano causa di piccole frane. Ma è anche vero che la suggestione del luogo, adattissimo scenario per qualche film di genere fantasy, è sufficiente a far zittire le lingue più loquaci.

In un silenzio contemplativo l’udito percepisce solo i rumori naturali, come il gorgoglio del torrentello che ci accompagna, mentre lo sguardo indaga gli anfratti della roccia scavati dall’azione meteorica, nidi ideali per varie specie di uccelli, tra cui il gufo reale, il corvo imperiale, il nibbio, l’avvoltoio

Più sorprendente ancora – e solo la nostra guida poteva farcelo notare – è la realtà non statica di Valli Cupe: scavate dall’azione millenaria del torrente omonimo, si comportano alla stregua di un organismo vivente, anche se il loro è un moto misurabile solo nell’ordine di milioni di anni. «Ci troviamo – spiega Alfonso – sulla linea di una faglia che va da Cutro a Falerna, dividendo in due questa terra di terremoti che è la Calabria. Il canyon è nato dallo scontro di due formazioni rocciose di diversa resistenza; scontro che sta originando un secondo canyon: la Marmitta dei Giganti. Eccola! – e indica in un crepaccio laterale l’incipiente canyon “figlio” –. Con le piogge invernali la Marmitta diventa un contenitore d’acqua, che entrata scrosciando fuoriesce nebulizzata».

Questo accenno alle forze ciclopiche della natura, qui percepibili solo ad occhi esperti, accresce la solennità del luogo di cui siamo ospiti minuscoli, fragili e di breve durata.

Entusiasti per la visita a questo Gran Canyon del Colorado nostrano, risaliamo col fiatone il sentiero che ci riporta verso Sersale per la seconda tappa del nostro itinerario: la Cascata Campanaro. Qui altra discesa in una sorta di imbuto verde, accompagnati dallo scroscio sempre più possente dell’acqua proveniente dal fondo: qui incontriamo rocce sgretolate dalle radici di maestosi ontani, tronchi abbattuti dalla vecchiaia o da qualche tempesta, festoni di edera che ricoprono di nuova vita rami spogli, tre sorgenti, un “vullu” (pozza di acqua corrente), due ponticelli di legno e – perfettamente inseriti nella cornice naturale – i resti di un ponte di epoca moderna semidistrutto dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Infine giungiamo là dove, scenograficamente, un affluente del Campanaro fa un salto di circa 22 metri fra massi enormi d’un grigio-rosato. Nel sottostante bacino l’acqua è di una limpidezza straordinaria. Abbondano nei dintorni le capelvenere, i ciclamini e le felci preistoriche. Sostiamo a lungo, incantati dalla bellezza di quello che sembra un angolo di foresta equatoriale.

Luoghi simili i popoli antichi consideravano sacri a qualche divinità delle acque, onorandola con offerte ed ex voto. Sarà avvenuto così anche alla Cascata del Campanaro? Certo è invece un più recente episodio di storia locale legato ad essa: la cattura di una “mano” (cioè cinque) di pericolosissimi briganti.

Impossibile visitare in un sol giorno le rimanenti cascate di Valli Cupe: in tutto quasi un centinaio, alte fino a 100 metri. Come pure le altre numerose attrattive del territorio: resti di monasteri basiliani, di castelli e borghi medievali, con l’immancabile corredo di leggende. Occorrerà ritornarci.

 

 

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