Neil Diamond: via da Las Vegas

Sessantaquattro anni, milioni di dischi venduti in quarant’anni di carriera, Grammy e attestazioni a carrettate. Mister Diamond, sommo maestro del pop d’autore a stelle e strisce non è mai stato uno qualunque: né in prima persona, né come autore per conto terzi (chi era ragazzino nei Sessanta ricorderà di certo I’m a Believer, Solitary Man e gli altri classici della serie tv The Monkeys). Ma non è questo il punto. Perché il fatto è che nonostante il palmares e il pedigree, il buon vecchio Neil è sempre stato un ibrido, ed ha attraversato infinite stagioni compresso in una specie di limbo, sia pure agiatissimo: quello che separa l’Olimpo degli imprescindibili dai purgatori dei non essenziali. Bravo ma non geniale, inconfondibile ma non carismatico, sempre a mezza via tra la piacioneria delle pop-star da supermercato (o dei crooner da casinò…) e la profondità dei cantautori di razza. Ebbene, oggi questo stagionato stereotipo dell’americanità più convenzionale è riuscito a spiazzare tutti. Con mossa insieme coraggiosa e intelligente, s’è affidato a un produttore geniale come Rick Rubin (lo stesso che in epoche recenti aveva ri lanciato un altro grande come Johnny Cash), scegliendo di rinnegare la magniloquenza e le ridondanze del passato, per riportare all’essenziale il proprio baricentro espressivo. Il risultato è questo splendido 12 Songs (Sony-Bmg), dodici nuove canzoni sostenute soltanto, o quasi, dal calore di una voce ancora inconfondibile e dallo schitarrare rustico di una Martin. E se non è un capolavoro, poco ci manca. Con l’invidiabile rilassatezza di chi può fregarsene degli esiti commerciali del proprio lavoro, l’artista newyorkese ha vinto e convinto proprio laddove molti crooner hanno spesso fallito: anziché accontentarsi dei soliti dischi di routine buoni soltanto a far lievitare i cachet concertistici, eccolo scoprire i brividi dell’azzardo, e senza ricorrere a soliti effetti speciali: contrapponendo la semplicità alla retorica, l’essenzialità del tratto agli orpelli, il cuore alle strategie. Dodici piccole gemme (nella conclusiva Delirious Love c’è addirittura l’ex leader dei Beach Boys Brian Wilson) che se a lui hanno restituito la passione e l’entusiasmo per il proprio mestiere, a noi regalano l’emozione che solo le grandi canzoni sanno dare. Emozioni così profonde da far nascere il forte sospetto che il Nostro, un posticino tra i Grandi, oggi lo meriti davvero. Giù il cappello dunque, e buon proseguimento. D Novità Antony & The Johnson’s I’m a bird now (Rough Trade) Un disco che ha già parecchi mesi di vita, ma qui da noi passato quasi inosservato per via della scarsa distribuzione. Peccato, perché si tratta di uno dei dischi più belli ed originali che mi sia capitato di ascoltare da molto tempo a questa parte. La voce del gio vanotto (un efebo alla Boy George) è assolutamente stupefacente in quel suo oscillare tra virtuosismi da sopranista lirico e i falsetti dei grandi del soul; così che le 10 canzoni dell’album (che ha già vinto il prestigioso Mercury Prize) sembrano davvero sgorgare dal profondo di un’anima inquieta. Mettetevi sulle sue tracce, e vi garantisco che non vi deluderà. Artic Monkeys Artic Monkeys (Domino – Self) Inglesi di Sheffield, le scimmie artiche sono la band del momento. Un boom venuto dal basso, figlio di una rigorosa autarchia e del tamtam del web. Al punto da trasformarli in star ben primagioche questo loro primo album vedesse la luce. Toste e sfrontate secondo un copione rockettaro tutt’altro che inedito (si va dal garage a certo combat-rock à la Clash, con qualche spruzzatina di hard), le loro canzoni sono l’ennesima reincarnazione del sempiterno spirito rock’n’roll. Basterà a far durare anche loro?

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