Nei grovigli familiari di un’anziana balia

Il drammaturgo argentino Claudio Tolcachir è autore e regista di uno spettacolo intenso su una famiglia allo sbaraglio che si aggrappa alla ritrovata bambinaia del figlio. Tra dramma e ironia la profondità di una storia esemplare di normale follia e disadattamento

Protagonista del dramma “Emilia”, del regista e autore argentino Claudio Tolcachir, è il tempo. Il passato e il presente. Assente il futuro. È il passato, con tutto il suo peso, che ritorna attraverso la figura minuta di un’anziana donna, Emilia, ex bambinaia di Walter, riapparsa improvvisamente nella nuova casa dell’uomo ormai adulto che ha appena traslocato con la moglie e il figlio grande. La gioia e l’eccitazione per la ritrovata balia si allarga ai ricordi che ritornano nella descrizione di eventi e di aneddoti che rivelano il carattere di Walter, la sua infanzia, l’educazione ricevuta, le frustrazioni, i rapporti coi genitori.

A delinearsi sarà una vicenda famigliare difficile, dolorosa, complessa. Come complesso si rivelerà il nuovo ménage all’apparenza tranquillo, felice, senza problemi, in realtà foriero di rivelazioni che ne minano le basi e faranno esplodere i conflitti tenuti nascosti. Conflitti che si disveleranno man mano si darà spazio alle parole e ai gesti che relazionano i personaggi, per capire che Walter è il padre putativo di Leo, il figlio di un altro uomo, Gabriel, e di Carolina, la donna che ora ha sposato; e scoprire, soprattutto, che Walter non è quell’uomo dolce, amorevole, e premuroso che sembra, bensì geloso, violento e autoritario. Carolina, sempre distratta, col pensiero altrove, in cuor suo ama ancora Gabriel. Lo rivelerà l’abbraccio furtivo che i due si scambiano quando l’ex marito comparirà all’improvviso in una visita fugace per volersi riprendere la donna e il figlio, ora che ha trovato un lavoro. Carolina finge di amare Walter assecondandolo nelle sue manifestazioni esuberanti di affetto. Espansività che egli riversa anche su Leo, ragazzone estroverso con qualche turba comportamentale, disperatamente succube del patrigno.

La figura di Gabriel, che rimane per gran parte dello spettacolo in ombra, ma sempre in vista, pur in disparte incombe come un presagio funesto. E infatti il dramma di questi amori malati esploderà dopo che la sua visita avrà risvegliato di nuovo la passione nella donna, che improvvisamente deciderà di abbandonare Walter. Decisione che farà scattare in lui una furia assassina. L’anziana tata, entrata nel ménage per un saluto, poi invitata a rimanere per il pranzo, quindi anche a dormire, poi rimasta per molto di più, diventa la testimone di tutto questo. Lei, che ha avuto una vita difficile, che è stata allontanata dalla casa quando il bambino è cresciuto perché non serviva più e che ha vissuto da allora una vita di stenti dormendo anche per strada e avendo come unica compagnia un cane, lei si sacrificherà ancora una volta fino ad assumersi, per il troppo amore, la colpa dell’uccisore coprendo quel femminicidio.

Attraversata da un dolore sotterraneo che lentamente emerge con sprazzi d’ironia, la scrittura di Tolcachir è un vortice di sentimenti che si compenetrano mirabilmente intrecciando personalità fragili e quotidiane che fanno emergere la profondità di una storia esemplare di normale follia e disadattamento. Ha il pregio di confondere la temporalità: non sappiamo se siamo in un tempo reale o immaginato. Forse in un limbo sospeso, quel margine in cui «C’è un momento nella vita in cui i morti si fanno più presenti dei vivi», come dirà confusa la protagonista già al suo ingresso in scena. Il suo è un ricordare e rivivere, come dirà ancora «[…] sono più le cose che si ricordano di quelle che si vivono». La storia che si dipana davanti ai nostri occhi è al presente, con Emilia che sta pienamente dentro a viverla, ma tirandosene fuori in alcuni momenti rivolgendosi direttamente agli spettatori.

Ed è semplicemente commovente l’interpretazione dell’ottantatreenne  Giulia Lazzarini, un distillato di umanità, di verità, di poesia, che affiora dai sui gesti. È  negli sguardi, nei silenzi, e in quel modo di recitare – al limite dell’udibile, in certi momenti – fatto di sottrazione emotiva. Una figura discreta ma dalla forte presenza scenica anche nei passaggi in cui se ne sta in disparte a guardare ed ascoltare il susseguirsi degli eventi. La messinscena agile e funzionale di Tolcachir è uno spazio simbolico (impianto scenografico di Paola Castrignanò), un interno domestico a forma quadrata che assomiglia ad un ring ai cui lati sono ammassati coperte e casse di un trasloco, e con al centro una porta che dà su uno spazio circostante vuoto. Come se quel mondo circoscritto e protettivo, diventato per tutti una prigione, fosse sospeso. Forse nella mente di Emilia lì davanti a noi. Forse in carcere, forse in un sogno, forse solo nella sua memoria. Bravissimi tutti gli altri attori, di grande naturalezza: a partire da Sergio Romano, un Walter isterico nei movimenti e nella recitazione e deflagrante nel manifestarsi della sua vera personalità, a Pia Lanciotti (Carolina), Josafat Vagni (Leo) e Paolo Mazzarelli (Gabriel).

 

“Emilia”, scritto e diretto da Claudio Tolcachir, scene Paola Castrignanò, costumi Gianluca Sbicca, luci Luigi Biondi. Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale. A Roma, Teatro Argentina, fino al 23 aprile.

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