Musica: la più buia delle estati

Per una curiosa coincidenza – o più probabilmente per una quasi identica patologia – sembra esserci una strana relazione tra mondo del calcio e quello della musica. I due grandi malati del divertissement planetario stanno attraversando questa terza estate del nuovo Millennio come un tenebroso calvario. Nell’attesa di sempre più improbabili resurrezioni, entrambi i settori scontano i deliri, le disfunzioni, gli eccessi, e la mancanza di programmazione degli ultimi decenni con la crisi più nera della loro storia. Ma mentre per il calcio ancora s’intravedono terapie praticabili, per la musica leggera è difficile profetizzare soluzioni di sorta. Ultimi dati dal fronte europeo, il più depresso, ma che con il suo giro d’affari di 12 miliardi di euro, vale un terzo del mercato mondiale: rispetto ai già tragici dati di aprile (vedi Città nuova n. 9) un altro 5 per cento di perdite secche, dovute in primo luogo all’impossibilità di porre un freno alla distribuzione gratuita di musica sul web, in secondo alla duplicazione illegale, sia domestica che su larga scala. Il che significa che per ogni canzone effettivamente acquistata corrispondono non meno di dieci copie illegali. Per tornare al calcio, è come se allo stadio si pagasse una partita su 10. Secondo i più, a questo punto, neppure il tanto invocato abbassamento dell’iva basterebbe ad arginare il tracollo. Ma mentre gli artisti, almeno i più noti, in qualche modo galleggiano approfittando della discreta salute del mercato concertistico, i discografici non san più che pesci pigliare; dopo aver raschiato il fondo del barile delle ristampe antologiche e delle compilation, dopo aver ridotto ai minimi termini il personale, dopo aver – troppo tardivamente – cer- cato accordi con Internet, dopo i drastici tagli produttivi e promozionali, dopo le penose collusioni con l’isteria omogenizzante e banalizzante dei grandi network radiofonici, insomma dopo tutto quel che si poteva fare per arginare le falle, ormai si stanno attrezzando per abbandonare la nave. Ma non è detto che l’ormai più che probabile affondamento del Titanic discografico sia una tragedia assoluta anche per la musica in quanto tale. Perché se è vero che anche l’arte – così come lo sport – hanno comunque bisogno di un mercato, è altrettanto vero che se questo diventa l’unico parametro col quale confrontarsi allora tanto vale produrre hamburger o saponette. Per secoli la musica si è venduta sempre nello stesso modo: dato un prodotto si cercava il pubblico a cui piacesse. L’avvento del mercato discografico ha progressivamente ribaltato la regola: dato un pubblico bisognava trovargli la musica che lo intrigasse. Come dire: lo strapotere della strategia sulla creatività. Il fatto che questo sistema stia collassando potrebbe finalmente riportare il baricentro sulla forma e sull’ispirazione (in altre parole sull’opera dell’artista), restituendo alla musica un po’ di quella purezza primigenia troppo a lungo vilipesa dal mercantilismo. Certo ci vorrà tempo, certo un’inversione di tendenza di questa portata sarà per molti tutt’altro che indolore, ma al momento pare l’unica via di salvezza credibile per evitare la definitiva robotizzazione della più accessibile delle arti. Ma se mai un tale miracolo dovesse avverarsi, riguarderemo alle tenebre di questo presente non come al precipitare di un tramonto, ma al preludio di una nuova aurora.

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