Morte e resurrezione nello Xingu

La resistenza degli indios kaiapó. La morte di una suora uccisa dai mercenari. Tra coloro che, in Brasile, non si arrendono al genocidio.
Gente colore

Padre Zezinho Leoni è un missionario saveriano italiano sorridente, semplice, che da anni vive con altri confratelli in un villaggio di indios kaiapó nello Xingu, Amazzonia. Una regione attraversata da contraddizioni, dove le mani dei latifondisti e dei commercianti di legname si protendono rapaci sulla terra, la foresta e le persone, macchiandosi senza scrupoli di sangue. E tra le loro vittime gli indios, costretti a difendersi da coloro che invadono le loro terre per il latifondo, l’allevamento dei bovini e l’estrazione di legname, le loro acque inquinate dai garimpeiros (cercatori d’oro), colpiti da malattie trasmesse dai bianchi, i valori tradizionali delle loro culture messi in pericolo dal comportamento commerciale e sessuale di chi viene da fuori.

Proprio su una grande area dello Xingu pende la minaccia di un progetto molto discusso di costruzione di un’enorme diga, Belo Monte, che allagherebbe uno spazio enorme, espellendo decine di migliaia di persone, fra cui varie popolazioni indigene. Io stesso sono stato spettatore di una giornata di dibattito pubblico nel 2002. Il vescovo, mons. Erwin Krautler, difensore degli indios, stava nella lista degli oratori, ma non è stato fatto parlare.

 

Un privilegio e una sfida

Torniamo a p. Zezinho: «Per me è un privilegio poter vivere con i kaiapó – mi dice – e sperimentare con loro la presenza di Dio nel villaggio». I missionari si sono fatti come gli indios, condividono la loro giornata: al campo, alla pesca, a scuola, nel gioco del calcio e nella danza.

«Abbiamo acquistato madri e padri, fratelli e sorelle. Per questo siamo invitati a partecipare ai loro riti», testimonia il missionario. Vivendo con loro si vede quanti preconcetti esistono nella società “civilizzata”, per la quale, come potevo vedere personalmente abitando a São Paulo, “índio” é sinonimo di selvaggio, ignorante, senza cultura.

«Convivere con l’altro è la sfida di ogni giorno – confessa p. Zezinho – che ti obbliga sempre a uscire da te per accogliere chi è diverso, per costruire rapporti fraterni, partendo dall’altro, dal suo mondo, dalla sua cultura, dai suoi valori». Valori che si vanno perdendo nella società occidentale come il senso del divino, il rapporto con la natura e il suo rispetto, la comunità, l’economia non competitiva e la condivisione dei beni.

Racconta p. Zezinho: «Una volta, tornando da un viaggio in barca di due giorni, avevo portato con me del cioccolato. L’ho dato al primo bambino entrato in casa. Così ho fatto. Il bambino l’ha guardato ed è uscito correndo: era andato a chiamare gli amici per mangiarlo insieme».

 

I kaiapó, uno specchio

 

Il Forum mondiale sociale di Belém (27 gennaio – 1° febbraio 2009) capitava a pochi mesi dallo scoppio della crisi finanziaria ed economica. Molte le idee e le proposte che circolavano in quella grande fiera della creatività alternativa: ritorno al marxismo puro delle origini, spiritualità orientali, esperienze di economia solidale e di comunione anche ispirate al Vangelo, progetti ecumenici e chi più ne ha più ne metta.

Partecipavano anche molti indios. La loro presenza evocava un modo diverso di vivere, richiamava valori genuini, la precedenza dell’essere sull’avere. Ma molte volte i loro racconti parlavano di violenze subite, di diritti non riconosciuti: «Siamo messi in prigione perché difendiamo quello che da sempre è nostro».

Sono ferite inferte alle popolazioni indigene, che patiscono l’attentato contro le persone e i beni, e particolarmente contro il loro stile di vita. Ne soffre però anche la società che li aggredisce, che non si accorge di andare contro sé stessa, seguendo una logica suicida che distrugge i valori sui quali potrebbe costruire una convivenza armoniosa e rispettosa di tutti.

A Belém si diceva: «Le popolazioni indigene ci offrono uno specchio nel quale la nostra società dovrebbe scoprire il proprio volto invecchiato e triste, perché si ostina a ripetere gli stessi errori e, dall’altra parte, potrebbe trovare l’ispirazione per un nuovo progetto dove natura e uomo, nella pluralità e nell’unità, ritornino a “vivere”».

 

Indios coordinati

 

Si è capita la lezione? Alcuni decenni fa c’era chi profetizzava la scomparsa degli indios, costretti a ritirarsi sempre più verso l’interno davanti alle ondate di invasioni dalla prima colonizzazione ad oggi. Di fatto, negli anni Cinquanta in tutto il Brasile se ne calcolavano intorno ai duecento mila. Ora invece sono più che raddoppiati in Amazzonia. È un fenomeno interessante di resistenza, affermatosi a partire dagli anni Settanta, radicato nella coscienza della loro identità e favorito da vari tipi di coordinamento sorti fra loro e dall’appoggio delle organizzazioni indigeniste a livello di società e di Chiesa.

Emblematica l’esperienza di una comunità di Piccole sorelle di Charles de Foucauld, che vive da cinquant’anni in un villaggio di indios asurini nello Xingu. «Inizialmente senza la minima esperienza – confessano suor Edith e suor Mayi – ma guidate dal nostro carisma, che è “cercare di farsi uno di loro”. Abbiamo imparato a pescare, lavorare nel campo, tagliare la legna; ne controllavamo la salute». Le sorelle hanno scoperto i valori di quel popolo: «I pasti sono sempre comunitari: mai si mangia da soli un pesce o una cacciagione, ma si condividono con la famiglia vicina. Le donne fanno ogni giorno il mingau (specie di purè), che è sempre condiviso. La nostra preghiera, la contemplazione di ogni giorno si riempiono di questo spirito e ci portano ad agire di conseguenza. Se la persona umana ha valore per Cristo, gli asurini hanno valore per noi». Quando le Piccole Sorelle hanno fatto la scelta di entrare nel villaggio, quella etnia stava estinguendosi, avendo perso ogni motivazione per vivere. Adesso è risorta, sono tornati a nascere i bambini.

 

Lo stile della Chiesa locale

 

Come l’esperienza di p. Zezinho, anche questa testimonia lo stile della Chiesa in Amazzonia. Essa ha scelto i poveri e la povertà, l’incarnazione nella realtà come via per «l’evangelizzazione liberatrice», come dicono i suoi documenti. Di fronte alla società capitalista, che con la forza del potere e del denaro cerca di sradicare non solo gli alberi, ma anche gli uomini e i valori, la Chiesa, confidando solo nella potenza del Vangelo della giustizia, della verità e dell’amore, porta avanti la sua missione in difesa dell’uomo, della società e della natura. È un lavoro quotidiano, condotto da vescovi, sacerdoti, religiose e laici, brasiliani e stranieri, che incarnano il Vangelo.

Uno dei suoi più limpidi e recenti simboli è stata suor Dorothy Stang, una fragile religiosa americana che, non più giovane, ha scelto di andare a vivere nella foresta tra i più poveri dei poveri, i contadini minacciati dai latifondisti.

Ai due pistoleiros mandati per ucciderla che le domandano se fosse armata, risponde estraendo la Bibbia dalla borsa: «Questa è la mia arma. Ascoltate: Beati i poveri di spirito. Beati i misericordiosi. Beati…». Tre colpi di pistola la interrompono. È il 12 febbraio 2005. Nel momento del funerale un contadino le dice: «Suor Dorothy, non si preoccupi: non la stiamo seppellendo, la stiamo piantando».

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