Mondiali 2018: a che gioco giochiamo?

Il mondo non sembra pronto a giocare una partita regolare anche nel campo dello sviluppo globale, ma solo a mantenere inalterati privilegi e diseguaglianze. Il commento di una lettrice

In questi giorni stiamo assistendo, seppur rattristati dall’assenza della nostra nazionale, allo spettacolo dei Mondiali di calcio che si stanno svolgendo in Russia. È sempre emozionante partecipare – direttamente per i più fortunati, o attraverso la televisione per tutti gli altri –, a questo evento che si svolge ogni 4 anni e che mette a confronto le nazionali di calcio di tutto il mondo, con gare di qualificazione che portano le migliori 32 squadre a gareggiare durante le fasi finali.

Intorno alle gare c’è tutto un movimento di tifosi che animano le città attraverso colori e fantasia – per festeggiare la squadra se ha vinto, oppure per esorcizzare la sconfitta se ha perso –, in un turbinio di danze, musica, inni, incontri, amicizie.

Quest’anno però, in modo più evidente del solito, qualcosa è cambiato. I commentatori sportivi ne stanno parlando nei talk show. A cominciare dalla mancata qualificazione dell’Italia, alcune delle squadre più blasonate sono state eliminate, nella fase a gironi o agli ottavi di finale.

Che sia anche questo un effetto della globalizzazione del mercato?

I più grandi club di calcio delle nazioni europee tendono, ormai da diversi anni, ad ingaggiare i migliori giocatori, i talenti emergenti che arrivano da altri paesi. Oggi moltissimi africani, sud americani, alcuni asiatici vengono a giocare in Europa ed alcuni europei, magari a fine carriera, accettano ingaggi dalla Cina, dalla Turchia, ecc.

Non è passata, invece, la linea della limitazione di questi “ingressi” nelle squadre di club. Anche in Italia, per anni, si è dibattuto su questo argomento. Erano state avanzate proposte per porre un limite percentuale tra italiani e stranieri per ciascuna squadra. Al grido “prima gli italiani” i club hanno però risposto “picche”, perché quello che conta è vincere. Risultato: sempre più giocatori militato in club stranieri.

Questi giocatori poi, tornando in patria, portano il loro bagaglio di esperienze e lo condividono con i compagni. L’odierno campionato del mondo ci ha rivelato che non esiste più il “timore reverenziale” nei confronti delle nazionali che hanno sempre dominato la scena. Si aprono nuovi scenari, nuovi spazi per tutti. I migliori si decidono sul campo, ciascuno si gioca le proprie opportunità alla pari con gli altri, con le stesse regole.

Su altri campi di gioco, quello dell’economia, della finanza, dello sviluppo tecnologico, il mondo non è pronto a giocare questa partita. Ai paesi del sud non è consentito di partecipare con le stesse regole. A loro vengono imposte delle penalità: debito pubblico impossibile da sanare, mancato accesso alle cure e allo sviluppo tecnologico, dipendenza economica post-coloniale, ecc.

Alla domanda di ingresso nei paesi ricchi, da parte di cittadini degli altri paesi, si risponde con respingimenti, difesa dei confini, chiusura dei porti o con l’ancora più odiosa espressione dell’«aiutiamoli a casa loro».

La partita si gioca con regole stabilite per mantenere inalterati la supremazia e i privilegi delle nazioni ricche. Sarebbe come assistere ad esempio alla partita Germania-Messico (che è finita con la vittoria del Messico per 1 a zero) con la squadra tedesca che parte da +10. L’esito sarebbe talmente scontato che nessuno la vedrebbe. Inoltre tutti griderebbero allo scandalo, si indignerebbero perché in questo modo la nobiltà dei valori dello sport sarebbe tradita.

In realtà, ogni giorno, ciascuno di noi assiste a partite come questa, nelle quali sono imposte regole diseguali che impediscono ai poveri di giocarsi le proprie opportunità a pari merito con gli altri… ma nessuno si indigna più.

 

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