Macchine: il gioco dell’imitazione

La capacità di portare a termine un compito in maniera efficace di per sé non identifica, da sola, la presenza di una intelligenza intesa in senso propriamente umano, perché quest'ultima è caratterizzata da elementi che superano gli aspetti funzionali. (secondo articolo di due)
Robot (Philippe Dureuil/United Robotics Group​/news aktuell via AP Images)

Il precedente articolo su questo tema, si concludeva con una domanda: è davvero possibile mettere sullo stesso piano la fiducia riposta in una IA con quella riposta in un essere umano?

Per rispondere occorre fare prima qualche considerazione in più e capire a fondo che cosa si intende con il termine “fiducia”. Nella prima parte di questo articolo ne abbiamo parlato come una forma di riduzione della complessità dal punto di vista cognitivo, ma il vocabolo sottende qualcosa che chiama in causa anche e soprattutto fattori relazionali.

Quello della fiducia è infatti un atteggiamento che accompagna la nostra storia evolutiva e caratterizza il nostro stato di “animali sociali”, determinando gli eventi della nostra esistenza e plasmando i nostri processi cognitivi.

Sulla base della fiducia reciproca due o più individui possono unire le forze per sopravvivere in un ambiente ostile, superare le difficoltà, migliorare la qualità della propria esistenza, portare a termine un compito che, da soli, non avrebbero potuto realizzare. Esercitare la fiducia è stato uno dei fattori determinanti per la sopravvivenza della nostra specie, ed è anche la molla che fa scattare il più alto risentimento umano nel caso venga tradita, perché essa significa credere nell’altro, fidarsi della sua lealtà.

Da un’altra prospettiva, possiamo vedere nel concetto di fiducia un doppio carattere [5]: da una parte dice che c’è un soggetto consapevole dei propri limiti e che cerca fuori di sé un aiuto per sopperire ai propri bisogni, dall’altra indica la presenza di qualcosa su cui il soggetto può fare affidamento e trovare solidità.

L’affidarsi ad un dispositivo tecnologico è un comportamento naturale, ma la fiducia – nel senso più pieno del termine – richiama un atteggiamento di affidamento reciproco, e questo ovviamente viene meno se una delle due parti non è in grado di esercitare il medesimo sentimento nella stessa misura. Sulla base di questo principio, una relazione di fiducia, per essere tale, richiede una reciprocità che è possibile realizzare pienamente solo fra umani.

Non essendo autocosciente delle proprie azioni e potendo solo imitare un comportamento umano, una IA non può essere considerata come un soggetto in grado di assumere il medesimo atteggiamento nei confronti del fiduciante. Data però la nostra attitudine a riconoscere un comportamento umano anche in ciò che umano non è, il solo “gioco dell’imitazione” attuato dalle macchine basta a disorientarci.

Di fatto, se una macchina può agire con un certo grado di autonomia (come nel caso di una IA), la responsabilità del suo agire non è mai del tutto autonoma: deve essere sempre valutata in maniera correlata alla responsabilità umana di chi l’ha progettata o di chi l’ha messa in esercizio. Anche per questo, dunque, la percezione di una relazione di fiducia con una IA va ricondotta alla nostra consapevolezza, al nostro modo di percepire noi stessi e le relazioni con gli altri. Su questo fronte né le neuroscienze, né la filosofia sono in grado di dare risposte univoche, ma ascoltando le reazioni di vari addetti ai lavori una cosa si può comunque affermare [6]: se un’IA non può provare emozioni verso chi interagisce con essa, va da sé che gli esseri umani, nelle interazioni con sistemi “intelligenti”, non dovrebbero parlare di fiducia, ma al massimo di affidabilità ed efficienza, come si conviene per tutti gli altri automatismi.

Per rendere l’idea delle questioni esistenziali che sono in gioco con la diffusione delle tecnologie attuali, il filosofo Luciano Floridi parla di “potere di scissione del digitale” [7]. Con questo termine egli intende indicare il potere che la rivoluzione informatica ha avuto nel separare fra loro certi aspetti della nostra esistenza che prima pensavamo fossero immutabili, per poi riannodarli in maniera a volte disorientante (come quando partecipiamo ad una riunione tramite un collegamento telematico e sleghiamo il concetto di “presenza” dalla distanza fisica, oppure quando crediamo di poter dire di conoscere qualcuno solo attraverso i dati che lo rappresentano in rete).

In altre parole: il digitale ha legato strettamente il mondo materiale in cui viviamo a quello immateriale dell’informazione, cambiando in breve tempo le nostre abitudini ad una velocità che supera la nostra capacità di adattamento.

Una delle “scissioni” indotte dall’avvento dell’IA sta nell’avere separato i concetti di intelligenza e persona riannodandoli ad elementi artificiali, appiattendo così la complessità e l’irriducibilità che distingue ogni essere umano. Il turbamento che si può provare di fronte a queste macchine è dovuto al fatto che, facendo leva sul concetto di “imitazione”, una IA riesce ad agire con successo anche senza essere intelligente nel senso umano del termine.

Per potere gettare un po’ di luce sull’argomento Floridi ricorda che lo sviluppo di una IA ha due anime: una ingegneristica e una cognitiva. La prima mira a riprodurre e imitare il nostro comportamento intelligente (riuscendoci anche molto bene, tanto che non cessa mai di stupirci per i risultati che riesce ad ottenere); la seconda cerca invece di riprodurre il vero e proprio equivalente artificiale della nostra mente (non riuscendoci affatto, vista l’insondabile complessità di una realtà che va oltre la replica artificiale delle connessioni neuronali).

In sintesi, una chiave interpretativa che ci permette di prendere posizione di fronte alla questione del rapporto di fiducia con una IA sta nel discernere che la capacità di portare a termine un compito in maniera efficiente è una attività che di per sé non identifica, da sola, la presenza di una intelligenza intesa in senso propriamente umano, perché quest’ultima è caratterizzata da elementi che superano gli aspetti funzionali.

Accanto a questa semplice considerazione è utile, inoltre, riflettere sul temperamento umano e le sue “spinte”: attraverso l’utilizzo della macchina e l’affidamento ad essa, infatti, esercitiamo l’intimo desiderio di sviluppare qualcosa che ci permetta di passare dal fallibile all’infallibile, dall’imprevisto al previsto, dall’incognito al conosciuto; in altre parole: superare i limiti della condizione umana. Condizione dalla quale però non possiamo sfuggire e sulla quale occorre forse puntare più profondamente il nostro sguardo.

Continuando a sostituire via via pezzi della nostra esistenza con elementi artificiali – funzionalmente efficaci, ma esistenzialmente aridi – si rischia ciò che gran parte della filosofia del ‘900 ha già sottolineato e che ora, con i progressi dell’IA, torna prepotentemente a farsi strada: un’inversione del rapporto uomo-macchina, con il primo a servizio della seconda.

Se la condizione umana fosse rimessa a fuoco più in profondità, ci accorgeremmo che lo sforzo etico necessario per contrastare ogni riduzionismo sta nel riuscire ad “abitare” i limiti che ci caratterizzano e scoprire che proprio a partire da essi possiamo imparare ad essere, individualmente e collettivamente, pienamente umani.

[5] A. Fabris (ed.) – Trust. A Philosophical Approach, Springer, Berlin-New York, 2020.

[6] Spiga P. – La fiducia dell’essere umano verso le macchine intelligenti e l’inversione di paradigma del rapporto uomo-macchina

[7] L. Floridi – Etica dell’intelligenza artificiale. Sviluppi, opportunità, sfide, Cortina Editore, Milano, 2022.

L’articolo precedente è: Fidarsi delle macchine?

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