Sparare senza odiare

 I cattolici e la lotta partigiana. Il travaglio interiore ma anche la rivolta. Una presenza da rivalutare, numericamente e idealmente
1949- Partigiani per le strade di Roma. (ANSA - TECNAVIA_PHOTO_GENERALE_475702)

La vulgata comune ha privilegiato il mondo della sinistra, in realtà la Resistenza è stato un movimento di ampia partecipazione di massa che ha coinvolto persone di diversa estrazione ideale. Il contributo dei cattolici, sebbene non sufficientemente noto e storicamente ancora in via di approfondimento, è stato rilevante. Sul campo si son guadagnati un ruolo di primo piano nella lotta di liberazione e, conseguentemente, nella costruzione del Paese. Come altri resistenti hanno versato sangue mantenendo, tuttavia, uno spirito evangelico anche laddove la violenza era efferatezza e morte.

Sparate, ma non odiate è il titolo emblematico di un libro di Andrea Pepe, pubblicato lo scorso anno dall’editrice Ave, che parla della legittimazione della lotta armata nella resistenza dei giovani di Azione Cattolica. «Attraverso le sue pagine – scrive nell’introduzione Marta Margotti – Pepe restituisce la drammaticità delle tensioni vissute in quello spazio di coscienza entro cui maturarono scelte che gli stessi militanti della Giac (Gioventù di azione cattolica), una volta passati nelle bande partigiane, dovettero continuamente rinegoziare con sé stessi, soprattutto nel momento in cui quella violenza ipotizzata diventò una violenza agita. Veder uccidere, rischiare di morire, causare la morte e provocare rappresaglie sui civili furono eventi che misero continuamente alla prova i passi compiuti inizialmente».

Per i cattolici fu travaglio interiore lacerante. Come potevano coloro che avevano deciso di imbracciare un’arma sentirsi sicuri nella loro scelta, quando anche la condanna della violenza continuava a essere il tratto distintivo? Tanto più perché la guerra civile poteva mettere addirittura i parenti uno contro l’altro.

Peraltro, scrive sul sito dell’Azione cattolica italiana Paolo Trionfini, direttore dell’Isacem (Istituto per la storia dell’azione cattolica e del movimento cattolico in Italia Paolo VI), «i cattolici che scelsero la lotta armata contro il nazi-fascismo non potevano avvalersi di pronunciamenti ufficiali da parte della Chiesa istituzionale, anzi, se si analizzano gli interventi dei vescovi nel 1943 vi troviamo per lo più indicazioni che andavano nella direzione contraria di chi scelse la Resistenza».

Tuttavia, aggiunge, chi «fece la scelta di militare nelle formazioni partigiane si convinse, comunque, dell’inevitabilità dell’uso delle armi, cercando, per quanto possibile, come avrebbe ricordato Ermanno Gorrieri, di umanizzare gli aspetti più crudi della guerra partigiana».

«Io penso – giustifica Beppe del Colle nel libro Cattolici dal potere al silenzio – che si sia trattato di un cammino partito da una funzione caratteristica dell’essere cristiani, lungo tutta la storia: la carità, l’amore del prossimo, il bisogno di portare aiuto in nome di Cristo a chi soffre, per qualsiasi ragione; ma anche la rivolta contro l’ingiustizia e la violenza».

Sta di fatto che alla lotta partigiana parteciparono in molti. Ottantamila ne contabilizzava Enrico Mattei al primo congresso della Dc del 1946 sui complessivi duecentomila partigiani calcolati il 25 aprile 1945. «Brigate del Popolo, Fiamme Verdi, Volontari della Libertà, Squadre Bianche, sono alcuni dei nomi sotto i quali, in tutto il centro-nord dello Stivale, cercarono di distinguersi le formazioni autonome o indipendenti, che spesso facevano riferimento in gran parte o del tutto al Vangelo», sostiene sul suo sito web il Centro studi Malfatti. «Senza contare che in molte zone, per esempio in Liguria e Romagna, anche nelle comuniste Brigate Garibaldi spiccava cospicua una presenza cattolica».

Ma non è tutto. Molti protagonisti sfuggono alla conta. Sono preti, gente comune, persone che, pur avendo avuto ruoli di rilievo nell’antifascismo, sono rientrati nel silenzio per scelta e volontà. «Ben più numerosi – precisa il Centro studi Malfatti – sono stati i credenti che, collocati anche ai vertici militari della ribellione anti-nazista, dopo il 25 aprile sono rientrati con discrezione nei ranghi della vita quotidiana, oppure hanno rinunciato a far valere i loro meriti per sottrarsi ai troppi scontri ideologici sulla Resistenza».

È una storia ancora da approfondire, da scrivere e da valorizzare. Ed è necessario scriverla oggi che è ancora possibile ricostruire la memoria di quegli eventi e il tempo ha reso meno forte il peso ideologico del contrasto tra ‘bianchi’ e ‘rossi’. Numerosi sono i centri culturali che a diverso titolo se ne occupano. Oltre all’Isacem ci sono il Centro studi Giorgio Catti e l’Associazione nazionale partigiani cattolici, per citarne alcuni.

Il 25 aprile non è solo la liberazione dell’Italia dal giogo tedesco, è semmai la rinascita di un Paese distrutto fisicamente e moralmente, ma rinvigorito da chi si è ribellato per amore. È quanto chiede al Signore Terenzio Olivelli, morto il 22 gennaio 1945 nel lager nazista di Hersbruck, oggi servo di Dio, nella Preghiera del ribelle. «A noi, oppressi da un giogo numeroso e crudele che in noi e prima di noi ha calpestato Te fonte di libera vita, / dà la forza della ribellione». Non per odiare, ma per amare anche nei momenti bui.

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