Strizza l’occhio al musical “Rhapsody in blue” per Aterballetto

La compagnia di Reggio Emilia ha debuttato con una nuova creazione, omaggio al grande compositore statunitense George Gershwin e alla sua celebre rapsodia a cento anni esatti dopo la sua prima rappresentazione

Nata su commissione del Centro Coreografico Nazionale/Aterballetto di Reggio Emilia in coproduzione con il Teatro Regio di Parma dove lo spettacolo ha debuttato nell’ambito della rassegna ParmaDanza, Rhapsody in blue sull’omonima musica di George Gershwin, ha la firma coreografica di Iratxe Ansa e Igor Bacovich − coppia d’arte e nella vita − per la compagnia Aterballetto. Compatto come gruppo, versatile più che mai, tecnicamente ineccepibile, l’intero ensemble di 16 danzatori è subito schierato di spalle al pubblico e rivolto verso un grande disco sovrastante il centro della scena che trascolerà dal bianco al rosso all’azzurro. Il riferimento, dichiarato dallo stesso scenografo Fabio Cherstich, è all’immaginario del poliedrico artista danese Olafur Eliasson (a noi quel cerchio sospeso ricorda il lunghissimo e trascolorante tramonto del gigantesco sole di The Weather Project, l’installazione a specchio collocata nell’immenso spazio vuoto della Tate Modern di Londra), la cui ricerca sulla percezione e sul movimento, sia in termini puramente spaziali che ambientali, indaga l’influenza sulla vita umana. E quel grande anello geometrico sembra condizionare le relazioni che via via animano l’ensemble. L’altro riferimento è all’arte minimalista americana di James Turrel, leggibile nei giochi di luce e ombra (light designer Eric Soyer), che ricercano la visione interiore come rivelazione, evocando qui un’atmosfera astratta dove i danzatori si stagliano come silhouette.

Al duetto iniziale sulla canzone Beggin’ the blues di Bessie Jones, segue il movimento compatto di tutto il gruppo appena attaccano le celeberrime note della Rhapsody in blue. Coesi o frammentati, come onde che invadono la scena, attraversandola e defluendo in più angoli dello spazio scenico, i danzatori, dai colorati costumi urban-pittorici, costruiscono intrecci di posture e raggruppamenti sempre diversi. Rompono lo schema con sollevamenti che privilegiano alcune figure, con stacchi di duetti e terzetti, velocizzando o rallentando le sequenze e il ritmo dei corpi, modellando plasticamente due formazioni (ricordano, a tratti, quelle di West side story) che si fronteggiano, si corteggiano, e subito si amalgamano in allegre pose non prive di buffe smorfie e gesti. La frizzante coreografia, che nella struttura architettonica sembra strizzare l’occhio al musical, scorre fluida sulla musica jazz e blues della seducente rapsodia, la cui melodia, così radicata nella nostra memoria, vince su tutto.

“Secus” di Ohad Naharin.

La serata comprendeva, oltre al debutto assoluto di Rhapsody in blue, altre due coreografie del repertorio di Aterballetto: Secus di Ohad Naharin, e Yeled di Eyal Dadon. Il bellissimo, intramontabile Secus, che non ci si stanca mai di vedere e rivedere, è un carosello continuo di invenzioni gestuali, di movimenti corporei, di posture strambe, disarticolate, ironiche, che mostrano le infinite possibilità che ogni corpo può esprimere, assumere, creare. È la grande lezione Gaga di Ohad Naharin, che qui i ragazzi di Aterballetto dimostrano di possedere e restituire. Come in preda ad impulsi di energia i 16 danzatori, dai colorati costumi casual, creano frasi di danza costellati di movimenti veloci, dinamici, robusti, estatici, arrabbiati, ingenui, acrobatici, goffi o sgraziati. È un caos continuamente ricomposto: come il formarsi, nel mezzo del gruppo, di un duetto maschile molleggiato e acrobatico, tenero e virile; o il comporsi di file laterali e centrali con passerelle ordinate, improvvisamente rotte da folgoranti assoli di tutti gli interpreti, alcuni dei quali avanzano alzando la t-shirt, mostrando pudicamente un lato della pancia, la schiena, o i glutei. Il tutto su un mix sonoro di Stefan Ferry, che spazia dai suoni elettronici al funky rock, dalle melodie di Bollywood al gospel. Non c’è narrazione, né messaggio. Se non, forse, nel finale della passerella, nel gesto delle mani prima, sui volti forse di paura, poi di fiducia, nelle braccia sempre più aperte in segno di accoglienza mentre la parola “welcome” anticipa la canzone omonima dei Beach Boys.

“Yeled” (ph. Claudio Montanari)

In Yeled (bambino/fratello, traduzione della parola ebraica), il coreografo israeliano Eyal Dadon immagina di poter tornare bambino e guardare il mondo, le persone, le cose, con quello sguardo leggero che tutto può. Dadon si chiedeva: «Possiamo cambiare noi stessi da adulti? Possiamo tornare bambini? Possiamo pulire i filtri? Possiamo lasciare andare le cattive abitudini? Possiamo essere migliori». Una piccola porta stilizzata è la via d’accesso e un’altra da raggiungere, infine, all’opposto della scena. Nel mezzo un turbinio di sequenze giocose, oniriche, energiche, rutilanti, con un grande pupazzo che dirige le danze. Rimaneggiata rispetto al debutto del 2022, anche nella scenografia farraginosa iniziale, la coreografia scorre con più coerenza e linearità, esaltando la classe della compagnia.

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