Lenny Kravitz rivoluzionario griffato

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C’era da aspettarselo. Sarà che le derive in corso han riportato in auge il gusto dell’andar controcorrente, sarà che con la scusa del quarantennale il Sessantotto è tornato di gran moda, fatto sta che mai come oggi i trendysti (e non solo quelli della musica) amano sguazzare tra i fasti, le ideologie, e le nostalgie dei soliti anni Sessanta. E figurarsi se il più dandy degli eroi del black-rock poteva perdersi un’occasione del genere. Così rieccolo il cespuglioso Lenny, a far bella mostra di sé dalla copertina del suo nuovo e già vendutissimo album: come la reincarnazione griffata di un novello Jimi Hendrix. Già il titolo ha un che di evocativo: It is time for a love revolution (È tempo per una rivoluzione dell’amore). Il problema è che Lenny Kravitz, pur essendo indiscutibilmente uno dei mammasantisima della black-music statunitense, non è Jimi: non ne possiede il carisma né la propensione all’avanguardismo, è infinitamente più modaiolo, e molto meno propenso a barattare il proprio status di rockstar per correre appresso alle febbri dell’arte. Eppure, le nuove canzoni dimostrano che il talento non è evaporato, ed è presumibilmente ancora più forte dei suoi capricci e delle ovatte che circondano tutti i divi planetari. E con esso, una suprema capacità di servire pietanze da supermercato come fossero ora delicatessen d’alta cucina, ora rustucherie da trattoria fuoriporta. Fresco di stampa per la Virgin, questo suo ottavo capitolo discografico offre una furbissima alternanza d’energie rockettare e morbidezze soul, rivelando non solo un dna chiaramente hendrixiano, ma anche certe propensioni stilistiche apparentabili ora ai furori dei Led Zeppelin ora alle suadenze di un Sam Cooke postmoderno. Quanto ai testi Lenny centrifuga pacifismo e sorvoli mistici, litanie d’amore e fremiti para- sociologici, appelli buonisti e indignazioni vagamente populiste. Anche se le uscite pubbliche rivelano scarsa coerenza per legittimare i panni di un autentico maestro di pensiero, l’indubbio mestiere gli consente comunque di scampare le trappole delle retoriche, così come di preservare l’equilibrio tra sonorità molto vintage e modernismi dall’indubbio appeal radiofonico. Il tutto offerto con quel piglio da rocker autarchico (suona quasi tutti gli strumenti del disco) che fa di lui una delle icone della scena contemporanea. Che altro dire? Come profeta di tempi nuovi Kravitz è credibile quanto un cocomero alaskiano, ma come autore e musicista riesce ancora a stare una tacca sopra la media dei colleghi. CD Novità Chris Rea The return of the Hofner Bluenotes (Edel) Un’impresa multimediale (in tre cd più earbook da 80 pagine) per questo stagionato chitarrista e song-writer anglosassone. Dai fasti pop degli anni Ottanta e Novanta (30 milioni di copie vendute) Rea è pian piano ritornato ai suoi amori giovanili: il rock-blues di BB King, ed ora lo skiffle e il rock’n’roll e il country chitarristico dei primi anni Sessanta (quello degli Shadows e di Apache, tanto per capirsi). Un viaggio nostalgico e stilisticamente impeccabile per un prodotto così dichiaratamente out da far quasi tendenza. Scraps Orchestra Nero di seppia (Il Manifesto) Arrivano da Mantova. Sono un gruppo d’amici che miscela il teatro-canzone di gaberiana memoria con suggestioni care a gente come Fossati, Conte, Capossela. Un grande album pieno di idee e di poesia.!

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