La vittoria della fragilità

Nella confusione e nella promiscuità di un grande festival (e di confusione e promiscuità Cannes è maestra), le sole discriminanti capaci di riportare un po’ d’ordine sono due: i film in concorso e quelli assurti all’onore del Palmarès. Scelte che fanno selezione e che restringono il campo a pochi titoli destinati a restare nelle uniche gerarchie che contano. Al vertice di questa piramide targata 60ª edizione svetta 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni del rumeno Christian Mungiu, premiato con la Palma d’oro, racconto di un aborto clandestino nella Romania di Ceausescu, dove ogni istante è controllato da un repressivo apparato poliziesco. Al quale si può sfuggire soltanto a costo di gravi pericoli. Compreso quello della vita. Gran Premio al giapponese Mogari no mori (La foresta di Mogari) di Naomi Kawase, incontro fra un vecchio e una giovane donna in un ospizio fra anziani. In comune i due hanno l’elaborazione di rispettivi lutti, affron- tati nella magica atmosfera di una foresta in cui si respira il senso del sacro. Premio del 60° anniversario all’americano Paranoid Park di Gus Van Sant, che, traendo lo spunto dalla morte accidentale di un uomo da parte di un adolescente, esplora il limbo di una generazione sospesa fra l’irresponsabilità della giovane età e l’emergere della coscienza. Premio per la Miglior regia al pittore Julian Schnabel, autore di Lo scafandro e la farfalla, angoscioso ma toccante racconto di un giornalista rimasto completamente paralizzato che riesce a comunicare soltanto con il battito delle palpebre. Esemplare risposta a Mare dentro di Alejandro Amenàbar, film a sostegno dell’eutanasia, in cui si dimostra che il valore della vita va visto dal di dentro e non dal di fuori. Diviso in due il Premio della Giuria, con l’ex-aequo a Persepolis, di Marjane Satrapi e Vincent Paronnuad, e a Stellet Licht (Luce silenziosa) del messicano Carlos Reygadas. Un cartoon tratto dall’autobiografia a fumetti della stessa Satrapi, il primo, ferma denuncia della rivoluzione islamica e dell’Iran degli ayatollah; ricordi di Ordet di Dreyer nel secondo, dove il senso del peccato, la forza della fede e il miracolo si intrecciano in un unico dramma. E infine il Premio della Giuria Ecumenica a Auf der anderen seite del turco- tedesco Faith Akin, storie parallele fra Turchia e Germania, storie di donne diverse per scoprire un’identità di spirito. Al di là dei clamori mondani e delle spinte mediatiche per promuovere questo o quel film non in concorso ma così imbottito della crema dello star-system da surclassare ogni altra concorrenza pur gallonata con le credenziali dell’ammissione, il 60° Festival di Cannes si è distinto per non aver esitato a mettere in mostra i lacerati risvolti di un’umanità instabile, sperduta nel dubbio di profonde contraddizioni nate dalle crisi della coscienza (Paranoid Park), dalla fede ambiguamente vissuta (Stellet Licht), da traumatici sradicamenti e dalla solitudine totale (Lo scafandro e la farfalla), da un globalismo che chiama alla resa dei conti (Auf der anderen seite). Segno di un cinema coraggioso e vitale, che in un equilibrio di forma e contenuto si avventura sulle difficili strade di una ricerca esistenziale sempre più complessa e problematica. Festival delle contraddizioni, dunque, perché alla mostra della vanità, allo sfoggio di orpelli e all’esibizione di un kitsch senza freni si contrappone la sobrietà e il rigore dei film premiati. E su tutti ha vinto il cinema rumeno (trionfatore anche nella sezione Un certain regard con California Dreamin di Christian Nemescu), un cinema che viene da un Paese disastrato, flagellato da oltre quarant’anni di comunismo, dissanguato da un esodo continuo. A dimostrazione che il cinema non si fa con i soldi, ma con le idee, con il cuore, con qualcosa che brucia dentro.

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