La guerra non la si vede, ma c’è

Prima parte del diario di un viaggio in territorio siriano. L’arrivo a Damasco è surreale. Sembra che tutto quello che ci hanno raccontato sui media sia falso. Non si vedono tracce di battaglie. Ma appena si incontra la gente le cose cambiano
Damasco

Traffico intenso all’uscita di Beirut. Direzione Damasco, superando la catena del Monte Libano e passando per la Bekaa. Sulla strada non sono poche le auto con targa siriana, soprattutto tassì, che sfilano in strade sommerse dagli enormi manifesti elettorali per le elezioni del 6 maggio. Nell’attraversare la Bekaa un posto di blocco rallenta il traffico: scorgo miliziani di Hezbollah, non soldati libanesi. Poi si sale all’Anti-Libano, la catena montuosa dove è tracciata la frontiera siriano-libanese.

E cominciano i controlli. Quelli dalla parte libanese della frontiera sono più formali e meno ferrei, quelli dal lato siriano, ovviamente, sono molto più puntigliosi, anche se mai le guardie di frontiera perdono il controllo: manifestano una grande gentilezza. In tutto veniamo sottoposti, col nostro autista, gentile, silenzioso ed efficace, a una decina di controlli, che vengono fortunatamente risparmiati al mio compagno di viaggio, Massimo Toschi, politico, amico, intellettuale, uomo di pace, editorialista a Città Nuova. «Politico in carrozzina», ama definirsi. Noto un’attenzione particolare delle guardie e dei militari che, non appena vedono la sedia mobile nel bagagliaio, si mettono come sull’attenti, hanno un atteggiamento di grande rispetto: il disabile qui è ancora al centro dell’attenzione “naturale” della gente.

Lasciata la frontiera, a parte qualche posto di blocco (il militare di turno ci congeda con un semplice yalla, andiamo), a parte l’apparizione di un’infinita serie di ritratti del presidente Assad e a parte qualche camion arrugginito che avanza a 10 all’ora nella ripida discesa verso Damasco, sembra proprio che la guerra non ci sia. I campi sono coltivati ordinatamente, qualche boschetto pare addirittura pettinato, i cipressi ingentiliscono le creste delle colline, le pubblicità sono le stesse che in Libano, le antenne dei telefonini sono orribili quanto da noi. Appare un villaggio, Jdaidit Yabws, che ha sullo sfondo l’enorme distesa di case e palazzi che costituiscono Damasco, due milioni e mezzo di abitanti. L’abitato del paese pare come sempre da queste parti un cantiere, i palazzi non sono mai terminati ma nuove costruzioni vengono erette e la domanda viene spontanea: «Ma la guerra dov’è?». La normalità qui sembra dominare ogni mucchio di pietre, ogni crocicchio di persone, ogni grumo di case.

La stessa domanda riemerge all’entrata nella capitale siriana, con le sue larghe avenue, con un parco auto abbastanza nuovo, meno strombazzamenti che in Libano, con spazi di verde pubblico… Se non ci fossero ogni tanto camion militari carichi di soldati, si direbbe che la pace qui regni sovrana. La situazione nella Ghouta sembra essersi stabilizzata, dopo l’ultima battaglia di Douma e la resa delle ultime sacche di resistenza dei seguaci di al-Nusra, o di chissà quale altro gruppo jihadista oppositore di Assad, che hanno accettato di essere trasferiti nella città di Jerablous, al Nord.

Beit al-Atfal è “la casa dei bimbi”. 4 classi, 90 bambini, 4 ore di lezioni giornaliere. Le attività, sostenuto dalla Ong “Amu, Azione Mondo Unito”, sono ricominciate solo da una settimana, dopo due mesi di sospensione per via della ripresa intensa dei lanci di colpi di mortaio da parte dei ribelli nella Ghouta, mirando alla città vecchia di Damasco, controllata dai governativi. C’è un vassoio di mele su un tavolo all’ingresso della casetta precaria che ospita il doposcuola, poco lontano dalla Porta di Tommaso, la Bab Touma. «Sono state comprate da un agronomo che per vivere fa l’agricoltore in un piccolo podere alle porte di Damasco», mi spiega Z., che dirige il doposcuola. I locali sono poveri, le aule disposte su due livelli hanno porte in metallo, pavimenti sbeccati e infissi metallici che non chiudono. Ma la pulizia regna sovrana e il decoro non manca con quadretti e decorazioni preparati dai bambini.

Gli insegnanti vengono da Homs e da altrove, sono tutti rifugiati interni, provenienti da aree impraticabili del Paese. J. mi racconta di un suo fratello che è stato rapito tre anni fa a Homs, aveva 34 anni, sposato con tre bimbi. È stato imprigionato dai ribelli a Deir el Zor, poi a Douma: «Speravo – mi spiega – che alla liberazione della città fosse rilasciato anche lui, perché sapevamo che nella città c’erano 7 mila prigionieri detenuti in carceri chiamate “Prigioni della liberazione”. Ma solo 200 sono stati trovati, gli altri dove sono finiti?». Lì si diceva che fossero detenuti anche un migliaio di soldati siriani catturati: «Dobbiamo continuare a sperare di trovare i rapiti, altrimenti debbono mostrarci la tomba o il cadavere».

Nel volto dei bimbi si legge la paura, ma ancor più il desiderio infinito di cancellarla. «Voglio venire qui perché c’è gente che sorride e che mi dà l’idea che la Siria stia bene», mi dice un frugoletto umano vestito di rosso. Un’altra bimba interviene: «A Natale siamo andati al ristorante, erano sette anni che non ci andavo». Ora sta sbocconcellando la sua mela gialla con una minuziosità che dice penuria alimentare. Fotografo, disposti sulla scala, una dozzina di bambini che stanno ascoltando Massimo Toschi che li invita a «studiare moltissimo, perché così le bombe non cadranno più, perché voi non vorrete lanciarle. Voi sarete più forti di quelli che gettano le bombe». Gli occhi sono profondi come la loro paura, le pupille portano impresse il segno del dolore innocente.

Uno di loro mi prende per mano e mi fa vedere la sua biciclettina incatenata all’esterno dei locali: «Così mi sento libero», mi spiega orgoglioso. R. vuole parlarci: «Il 21 giugno 2014 è accaduto un miracolo. Due miei nipoti stavano giocando sul balcone di casa, poco lontano da qui. Mia sorella, la loro mamma, era dal parrucchiere, c’era una festa di famiglia. Un colpo di mortaio improvviso, e A., 11 anni, e M., 3 anni e mezzo, sono stati travolti dalle macerie, morti sul colpo. Il primo aveva lasciato il suo Vangelo aperto alla pagina di Matteo in cui i bimbi vengono detti beati. Mia sorella è caduta in una terribile depressione». E il miracolo? «Il miracolo sta nel fatto che pochi giorni dopo ha scoperto di essere incinta. Ed è come rinata».

C’è chi racconta di percosse, di famiglie distrutte, di bambini abbandonati, di follia. H. racconta: «Ho perso tutto nella fuga dai terroristi. La mia famiglia si è disintegrata, letteralmente. Solo con questo lavoro mi sono ripresa, un po’ alla volta. Mi ero anche allontanata da Dio, sono tornata. Non avevo una lira. Ora sono io che distribuisco le buste con gli aiuti per le famiglie più bisognose del quartiere. Ero depressa, certamente, ma ho sempre rifiutato di lasciare il mio Paese, e avrei potuto farlo».

La notte, la prima in Siria, la trascorro in una stanza del seminterrato dell’istituto francescano costruito nel presunto luogo della caduta di Saulo da cavallo, a Tabbale. Nulla è meno improbabile, ma qui ogni luogo può essere quello giusto, tanta è la storia che qui si è dipanata sul tappeto della vicenda umana. Notte agitata, indubbiamente, due o tre volte s’è udita una raffica di mitra ravvicinata. Ma forse era solo una festa. O forse una semplice minaccia a qualche ladruncolo. Chissà.

«Ma la guerra dov’è?». La domanda della mattina non ha avuto una vera risposta materiale: a Damasco non si vede la guerra, o poco. Ma la si legge nei cuori della gente, nelle ferite talvolta irreparabili della morte, della separazione, della fuga dei giovani dal servizio militare, dei bambini che tremano appena c’è un rumore un po’ più alto del normale, anche se è solo un’auto che scoppietta. La guerra la leggo negli occhi del bimbetto calvo incontrato rientrando al mio alloggio: sta lottando con la leucemia, ma la mamma non ha i soldi per pagargli le medicine.

 

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