La febbre del Pd

Con le primarie del Pd la campagna elettorale già entra nel vivo, benché si persista nell’incertezza su quali saranno le regole per eleggere il Parlamento.
Matteo Renzi

Con le primarie del Pd la campagna elettorale già entra nel vivo, benché si persista nell’incertezza su quali saranno le regole per eleggere il Parlamento. E dire che ci sarebbe un collegamento tra le due cose: le primarie, infatti, sono una modalità di individuare il candidato alla presidenza del Consiglio nei sistemi maggioritari, quando dalle urne esce un vincitore che assumerà la guida del governo. Diversamente, nei sistemi proporzionali, le elezioni servono a definire i rapporti di forza sui quali costruire la maggioranza che esprimerà il governo, lasciando in seconda fila la figura del presidente del Consiglio, che può anche essere un outsider.

Nonostante quest’incertezza, Matteo Renzi ha ritenuto giunto il momento di buttarsi in pista, sfidando Bersani e partendo in camper per un tour che toccherà tutte le province italiane. Ha fatto bene? Ha fatto male? Passato un primo momento di sussiegoso sconcerto, i commentatori hanno iniziato a prendere in considerazione gli aspetti positivi dell’iniziativa. Dappertutto (e a ragione) si mugugna contro l’immobilismo della classe politica e la sua propensione a confondere il rinnovamento con una diversa elencazione delle solite parole d’ordine, pronunciate dalle solite facce. Da qui l’inarrestabile crescita, tra i cittadini, degli indecisi e dei protestatari, provenienti da tutte le aree: una situazione che preoccupa molto gli osservatori, perché si è creato il tipico brodo di coltura in cui crescono gli estremismi.

Ecco allora che una figura che cavalca alcuni temi propri della ribellione alla “casta” (rinnovamento anagrafico, dimezzamento di poltrone e tagli di indennità…), ma dalla provenienza rassicurante (tuttora il primo partito del Paese secondo i sondaggi), appare come una possibile valvola di sfogo del malessere diffuso. Inoltre, Renzi è totalmente alieno dal Sessantotto e dalla sua tipica fisiognomica, guarda ai liberal americani in maniera ben più consistente di quanto abbia tentato di fare Veltroni (ed infatti, per la nostra sinistra risulta un “liberale”), cosicché può essere molto utile, assieme agli altri sfidanti (al momento, la trevigiana Laura Puppato, oltre Tabacci e Vendola), a far venire a galla le anime culturali del Pd e promuoverne una maggiore contaminazione. Insomma, nella situazione italiana persino un Gian Burrasca, invece che un Blair, fa sperare nel ritorno nella politica.

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