Il futuro siamo noi

I primi Giochi olimpici per i teenager degli sport invernali.
Atleti norvegesi nel curling

La tranquilla Innsbruck ricorderà per un pezzo la vivacità di questi dieci giorni, in cui l’hanno movimentata, rallegrata e, perché no, tenuta sveglia, più di mille ragazze e ragazzi sotto i 19 anni, provenienti da 70 Paesi diversi, accorsi qui, nel cuore delle Alpi, per sfidarsi in 17 discipline nei primi Giochi olimpici giovanili invernali, a due anni dalla prima edizione di quelli estivi svoltisi a Singapore.

 

I teenager dello sport mondiale non hanno portato, qui in Austria, solo berretti, sciarpe e stringhe colorate, cuffiette d’ogni tipo, telefonini e iPod sempre accesi. Hanno mandato un messaggio allegro e genuino, ma chiaro ed esigente, allo sport mondiale: «Il futuro siamo noi!». A cominciare dalla cerimonia d’apertura: ridotta al minimo la parata dei discorsi ufficiali, con Rogge, il presidente del Comitato olimpico ad affermare che l’obiettivo è «formare grandi uomini, che forse un giorno saranno campioni», due ragazzi chattano tra loro sul palco per raccontarsi le emozioni del presente e le memorie sportive di Innsbruck, unica città al mondo ad aver ospitato, con questa, tre olimpiadi invernali. L’emozione tradisce Christina Ager, sedicenne slalomista austriaca, che scorda le parole del giuramento olimpico e si fa scappare una parolaccia; poi, fra le risate generali, ritrova il foglietto e si riprende fra gli applausi. Bastano poche ore e la comunità, concreta o virtuale, dei giochi giovanili prende corpo, anche grazie alla chiavetta digitale che hanno ricevuto e con la quale possono scambiarsi informazioni e contatti.

 

Poi tutti in gara: scherzano sul fatto che saranno ricordati come «il primo, la prima che…». Per molti è l’età in cui decidere se fare l’atleta da grande: per ora glissano dando peso solo al fatto che oggi si divertono e questo a loro basta. Tutti (un po’ meno gli italiani) si esprimono con naturalezza in inglese davanti ai microfoni: alla sera, su Facebook, postano in abbondanza commenti ed espressioni, colorite le più.

 

In gara, prestazioni atletiche di livello assoluto si alternano a errori clamorosi, con molti atleti traditi dall’emozione o dall’inesperienza; in molte discipline i gap tecnici fra gli atleti sono apparsi evidenti, al pari di quelli fisici con “bambini” di 14 anni e “adulti” di 18. Il sorriso e il “cinque” di un coetaneo smorzano i toni di vittorie e sconfitte. Così come i tornei di curling a coppie, con atleti di Paesi diversi. A tutti l’agenda riserva anche interessanti programmi culturali: educazione alla prevenzione del doping, incontri con i campioni, concerti, stand dove conoscere le diverse nazioni attraverso quiz e giochi, corsi di alimentazione e di cucina… A proposito, nessuno ci accusi di fare troppo i moralisti, il nostro comitato olimpico avrebbe potuto scegliere uno sponsor diverso da una nota marca di merendine… Positivo, invece, il vademecum digitale consegnato ai nostri atleti con accattivanti indicazioni su come si possono rendere efficacemente complementari sport e studio.

 

Qui le nazioni svelano cosa hanno nell’incubatrice. La favola del bambino prodigio è un’immagine poetica: in realtà viene in luce (la Cina su tutti) quanto minacciosamente precoci siano selezione e addestramento ad alti livelli. Alcuni, nel 2014, gareggeranno a Sochi, ai Giochi, quelli “veri”. Forse non la norvegese del curling, disciplina a squadre miste, che ha candidamente confessato: «Un amico, un mese fa, mi ha detto che non avevano una ragazza in squadra. Ho imparato in fretta e sono felice di essere qui». Ci potrebbe essere Elisabeth Gramm, oro nel freestyle femminile, che sorprende tutti per la sua maturità, rivelando: «Lo sport mi ha aiutato a superare la morte di mia madre». E forse anche Ahmed Lahmamedi, vincitore del super G, primo africano a vincere un oro olimpico invernale, marocchino nato in Canada, Paese di cui ha indossato la tuta, ma non la bandiera, scegliendo la nazionalità del padre per dimostrare che «anche i marocchini sanno sciare». Un capitolo a parte lo meriterebbero i genitori: da quelli in veste di allenatori a quelli di tifosi ultras. Fino alla mamma che gridava: «Vai piano!».

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