Filippine al bivio

Provengo da una Cina che sprizza vitalità e tecnologia da ogni poro, così come le altre tigri asiatiche, Paesi che conoscono tassi di crescita economica a due cifre. È un altro mondo che mi si presenta già all’aeroporto di Manila, la capitale delle Filippine. In una temperatura soffocante, non può non colpire la bassa qualità delle infrastrutture aeroportuali (un aeroporto nuovo esiste, in realtà, ma non si riesce ad aprirlo per motivi burocratici e di corruzione). La fila al controllo dei passaporti è disordinata e senza fine, in uno stanzone privo di aria condizionata o di ventilatori. E, appena fuori dal recinto degli arrivi, poveri negozietti vendono bibite e carte telefoniche, giornali e banane fritte… Povertà materiale. Eppure tutti sorridono, la gente mi si avvicina rispettosa, qualsiasi sia la sua occupazione: taxista, commerciante, mendicante. La ricchezza sembra concentrarsi sulla gente, tralasciando i beni materiali. Un altro mondo. Quattro gap, quattro divari William M. Esposo è un vulcano di iniziative, nonostante la salute precaria. Tra i massimi opinion leader del Paese, ha diretto giornali e televisioni, ha lanciato iniziative sociali: da sempre ha a cuore una vera giustizia per il suo Paese. I suoi articoli su due tra i maggiori quotidiani (Star e Daily Inquirer), sono letti da centinaia di migliaia di persone. Nel suo ufficio, dove si respira efficienza e simpatia, gli chiedo di sorvolare le Filippine in una visione il più possibile globale: Eravamo grandi, siamo piccoli – mi risponde -, stretti nella morsa di altri Paesi asiatici che hanno sviluppi economici da capogiro, mentre noi arretriamo, economicamente parlando. Dopo la dittatura di Marcos e la partenza degli statunitensi, la classe politica nostrana non ha fatto grandi miglioramenti nel cercare di liberarsi da corruzione e inefficienza. Ciò pesa non poco sulla nostra economia. Tutto male, allora? No, evidentemente. La ricchezza del nostro Paese è la sua bellezza naturale, e la bellezza della sua gente, la sua gentilezza e la sua voglia costante di ricominciare. Deteniamo poi un primato invidiabile: le ultime due rivoluzioni sono state oceaniche, commoventi nel coinvolgimento del popolo, e senza spargimento di sangue, quasi un miracolo. Ma ora all’orizzonte si annuncia una nuova rivoluzione…. La curiosità cresce. Le Filippine soffrono per quattro gap, quattro divari, quattro gravi disfunzioni, che si manifestano in altrettanto gravi disuguaglianze sociali: nella informazione, nella educazione, nelle opportunità di crescita sociale e nella distribuzione delle ricchezze. Basti sapere che il 91 per cento del Pil è nelle mani di meno del 10 per cento della popolazione, cioè di quel centinaio di potenti famiglie, direi quasi onnipotenti, che governano nei fatti il Paese. Panorama inquietante, allora: Sì. Ma ritengo che esista una via d’uscita, anzi due. Da una parte bisogna cominciare col ridurre il divario informativo per arrivare a risolvere gli altri tre gap. Per entrare nel mondo dei media servono relativamente poche energie finanziarie, ma l’influenza che si può avere sulla società è certamente maggiore di quella che si potrebbe agendo su qualche altro divario. Per questo William M. Esposo sta mettendo su una rete mediatica sui quattro schermi (cinema, tv, internet, telefonini) promuovendo valori condivisi dalla stragrande maggioranza dei filippini. L’handicap è altrove È in un grande albergo di Makati, il quartiere degli affari di Manila – fino all’ultima guerra era un aeroporto militare -, che in questa mattina assolata e infuocata incontro una donna che fa politica, proseguendo una ricchissima tradizione femminile nella cosa pubblica (Cory Aquino, Gloria Arroyo, la stessa Imelda Marcos…). Grace M. Padaca è una squisita persona diversamente abile, che non esita a mettere una sua foto con le grucce sul biglietto da visita. Una coraggiosa 42enne, insomma, che è riuscita a diventare governatrice della provincia di Isabella, nel nord-ovest di Luzon, sconfiggendo la mafia locale che aveva un candidato appoggiato anche dalle famiglie che oligarchizzano la politica filippina. Ecco Grace M. Padaca, graziosa e decisa, una donna che tutti definiscono preservata dalla corruzione e animata da nobili intenti politici in favore della sua gente, in una provincia agricola e povera. La sua simpatia è contagiosa, e capisco come abbia potuto ribaltare una situazione che alle elezioni la vedeva perdente nei sondaggi. È giornalista, e pare avulsa dai massimalismi, una delle malattie della politica locale: sa riconoscere i meriti agli avversari, e non esalta i suoi. Madam Padaca mette l’accento su uno dei divari di cui soffrirebbero le Filippine: la ineguaglianza d’accesso a buoni sistemi educativi. È un problema qualitativo e quantitativo – mi spiega -, che si coniuga con la eccessiva influenza dei media sulla vita della gente, con la crisi attraversata da tante famiglie, con la povertà di larghe fasce della popolazione e, soprattutto, con la scarsità di buoni esempi offerti dalla vita pubblica, perché i leader sono troppo spesso corrotti e menzogneri. Ultimamente, la presidente Arroyo ha stretto i cordoni dei media, e vari giornalisti sono stati perseguiti dalla giustizia perché criticavano la presidente (Esposo è di questi). Ritiene che ci sia libertà di stampa nelle Filippine? E a che punto è la via filippina alla democrazia? Penso che, in linea di massima – mi risponde -, la libertà di stampa esista. Ma la nostra democrazia è ancora troppo giovane, direi ancora nella culla. Non abbiamo i solidi punti di riferimento delle più antiche democrazie. Così nella stampa c’è troppo spesso una pericolosa approssimazione e una scarsa professionalità, per cui possono sorgere contrasti col potere politico, che tuttavia dovrebbe rispettare con più rigore la libertà di informazione. Cosa debbono fare i politici per far crescere la giustizia nelle Filippine? Debbono pensare che una loro firma può cambiare la vita di una famiglia. Debbono rendersi conto che ogni pesos sottratto alla collettività aggrava il disagio sociale e rende più velenoso il clima politico. Debbono lavorare al bene pubblico senza sposare stili di vita stravaganti e immorali. Debbono infine lavorare assieme alle forze sociali più vive, come la Chiesa cattolica, le associazioni di volontariato e alcuni gruppi di imprenditori onesti. Folla anche nei giorni feriali È la festa di Nostra Signora del perpetuo soccorso, veneratissima qui nelle Filippine. La novena è in pieno svolgimento. Nel bel mezzo di un mastodontico centro commerciale, una semisfera bianca di cemento staziona quasi come un’astronave atterrata per portare la buona novella. È giorno feriale, ma il luogo di culto è strapieno: i banchi, disposti in cerchi concentrici attorno all’altare, sono occupati fino all’ultimo ordine di posti da una folla di fedeli raccolti, assai giovani, attenti a non perdere una sola nota dei canti e una sola parola del celebrante di una messa officiata con rapidità ma con precisione. All’uscita la gente sciama di nuovo verso il lavoro. Un giovane mi dice: Vengo qui perché la religione è il centro della mia vita; e una donna: La Madonna merita ogni nostra preghiera; mentre un quarantenne è deciso: La religione è la sola forza che può tenere assieme la nostra nazione. Il fatto è che nelle Filippine non si può fare a meno della Chiesa cattolica, da tempo immemorabile, non solo in materia religiosa, ma anche culturale, sociale e politica. È dappertutto, talvolta come una promessa (per i poveri), talaltra come una protezione (per i ricchi). Influenza la politica – da qualche anno decisamente in misura minore – e conta autorevoli membri nelle famiglie dei potenti, ma privilegia senza dubbio i poveri. Mons. Ignigues, vescovo nella Conferenza episcopale filippina incaricato dei media, è un uomo di frontiera. Dalla Chiesa – mi spiega – assai di frequente ci si aspetta troppo, perché si pensa solo ad essa come ad un’istituzione militare comandata da vescovi e preti. Ci si aspetta che la Chiesa dia indicazioni precise ai laici, su come si debbano comportare. E se ciò non avviene, tanti sembrano insoddisfatti. Il realtà il nostro ruolo è quello di indicare una direzione di marcia ai filippini cattolici, perché partecipino alla vita sociale e politica, artistica e culturale del Paese. Tocca poi a loro essere attivi. E come avviene tutto ciò? A vari livelli, usando media e omelie, feste patronali e azioni sociali. La Chiesa in particolare sta mettendo in atto un’azione di formazione dei laici cattolici, perché pongano attenzione alla politica, e vi si impegnino da cristiani autentici. I nuovi movimenti in questo sono assai sensibili. Cosa fa la Chiesa, oggi, per superare l’immenso divario di ricchezza che affligge il Paese? La Chiesa ha una sua ricchissima dottrina sociale che tutti i cattolici impegnati dovrebbero far propria e mettere in pratica. Questa dottrina non lascia dubbi sulla necessità di una reale comunione delle ricchezze. Anche nel nostro Paese deve essere così. Il cardinal Rosales ha avviato una vasta campagna per dare una formazione regolare alla giustizia intesa in senso cristiano. E si opera perché ogni giorno chi vi partecipa dia qualcosa di proprio per quella parte della popolazione che vive nella miseria. Debbo dire che siamo rimasti tutti sorpresi dall’entità della cifra raccolta: 60 milioni di pesos in una settimana! Anche la prima enciclica di Benedetto XVI spinge nella stessa direzione: condivisione e solidarietà. La storia breve Fa una certa tenerezza visitare Intramuros, il vecchio centro della città di Manila, delimitato da una cinta muraria assai scura, a protezione degli edifici che ricordano l’eroe nazionale – pacifico e determinato – José Rizal. Qui i filippini trovano le loro radici coloniali, religiose e politiche. Una terrazza guarda verso il fiume Pasig, che trasporta immondizie d’ogni genere assieme a isolotti di vegetazione aggrovigliata. Oltre il fiume si scorgono quartieri di baracche, tirati su dai pescatori e dai marinai, e il quartiere cinese, che non hanno mai voluto integrarsi completamene nella città. La storia qui è breve, non s’allunga nei secoli col suo carico di guerre e di pace. La cattedrale ospita un matrimonio, fiori a profusione, musiche solenni ed occidentali, vestiti di gran classe. Più in là, nella più antica chiesa di Manila, Sant’Agostino, un altro matrimonio, più modesto, coi mendicanti ammessi sul sagrato. Accanto, poi, hanno restaurato alcune vecchie abitazioni coloniali, trasformate in musei e boutique e ristoranti. In un magnifico cortile si svolge un terzo matrimonio, celebrato dalla sacerdotessa di una qualche setta evangelica, tra una giovanissima e splendida filippina e un maturo e appesantito occidentale, un tedesco. I filippini sono semplici e talvolta ingenui, se non leggeri, per loro stessa ammissione. Tre matrimoni, spaccato di un popolo unito dalla fede e dalla generosità ma diviso dal censo, a formare un Paese peraltro assai complesso da governare, se si pensa che è composto nientemeno che da 7100 isole. Complessità che si palesa anche osservando ed usando i jeepney, circa 50 mila solo a Manila, mezzi di locomozione economici, aperti e ovviamente senza aria condizionata. Coloratissimi e personalizzati dai proprietari, con illustrazioni e decorazioni che esprimono la massima fantasia di questa gente, ma anche la loro devozione cattolica, i jeepney mostrano ora il degrado progressivo della situazione economica del Paese: gli autisti decorano con meno fantasia i loro mezzi, per semplice mancanza di soldi. Un Paese di jeepney e di isole, provate a governarlo! Le rivoluzioni scoppiano e si sgonfiano in pochi giorni, manifestando una forza dirompente, spesso accese da semplici catene di sant’Antonio propagate dagli sms e dagli autisti delle jeepney, nei mercati, nelle piazze. È allora che l’ingenuità d’un popolo diventa la sua forza, contro l’ingiustizia, per un avvenire meno violento, meno precario. Che si sia alla vigilia di una nuova rivoluzione?

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