Erdogan ancora più presidente

Elezioni in Turchia e trionfo annunciato del leader dell’Akp. Che però perde consensi, a vantaggio degli alleati Lupi grigi. I curdi entrano in parlamento
EPA/SEDAT SUNA

I risultati del recente election-day turco (elezione diretta del presidente della Repubblica e rinnovo del parlamento) sembrano evidenti, come avrebbe riconosciuto laconicamente anche Muharren Ince, leader del Chp, sconfitto dalle urne pur avendo superato il 30% dei consensi: «La competizione non è stata equa, ma accetto che abbia vinto». Il vincitore assoluto di questa tornata elettorale anticipata, al quale si riferisce Ince, è ancora una volta il presidente Recep Tayyip Erdogan, naturalmente. Ince, come principale candidato dell’opposizione, si è battuto come un leone per tutta la campagna elettorale, ma era una missione impossibile nel clima istituito dal governo subito dopo il fallito golpe del 15 luglio 2016 e tuttora in corso.

Domenica 24 giugno Erdogan ha raccolto circa il 52% dei consensi tra i votanti (87% degli aventi diritto), evitando così il ballottaggio. Al terzo posto il leader curdo Selahattin Demirtas che ha ottenuto, pur essendo in carcere con l’accusa di appoggiare il “terrorismo” del Pkk, un coraggioso 11,13%. Coraggioso anche chi l’ha votato: i curdi, si sa, non sono molto ben visti dal governo di Ankara, pur rappresentando in Turchia il 18% della popolazione (circa 14 milioni su un totale di 80 milioni di cittadini).

Nella votazione per il rinnovo del parlamento monocamerale (portato lo scorso anno a 600 seggi) la Coalizione del popolo, che vedeva alleati l’Akp di Erdogan e i nazionalisti dell’Mhp (i noti Lupi grigi), ha superato il 53% dei consensi, aggiudicandosi 340 deputati. Ma all’interno della coalizione l’Akp ha perso posizioni, passando dal 49 al 42%, compensate però dalla crescita del Mhp che, ottenendo l’11% dei consensi, salva la maggioranza e, nello stesso tempo, non insidia troppo la supremazia del partito di Erdogan. Il blocco degli avversari, l’Alleanza della nazione, ottiene il 34% e 191 seggi. Il partito filo-curdo Hdp, di Demirtas, supera l’alta soglia di sbarramento (10%) e conquista 67 deputati.

Insomma, Erdogan accede alla presidenza della Repubblica per la seconda volta, dopo tre mandati consecutivi come primo ministro, e la coalizione che l’ha sostenuto ottiene la maggioranza assoluta in parlamento. Fin qui sembrerebbe che si sia trattato solo di un’accesa tornata elettorale, come anche il commento a caldo del neo-eletto presidente sottolinea con forza, orgoglio e una vena di minaccia: «I risultati sono chiari – ha detto Erdogan –. Spero che nessuno danneggi la democrazia gettando ombre sull’esito del voto per nascondere il proprio fallimento».

Secondo Muharren Ince il successo del capo dello stato uscente «non può essere spiegato soltanto con le irregolarità nelle elezioni (…). Hanno rubato voti? Sì – prosegue Ince –, ma hanno rubato 10 milioni di voti? No».

Quello che fa molto pensare sono invece le premesse, il clima in cui le elezioni si sono svolte. Per quello che si può sapere, in seguito al fallito golpe del 2016, 8 mila militari e un migliaio di civili sono stati arrestati, in attesa di giudizio o già condannati. Ma sono stati anche sospesi dal lavoro circa 30 mila dipendenti pubblici, a 21 mila docenti è stata ritirata l’abilitazione, 1.500 rettori di università sono stati deposti, tolte le licenze ad emittenti radio e televisive, i giornali non allineati sono stati perseguitati e chiusi, ci sono 150 giornalisti in carcere e qualcuno di loro è già stato condannato all’ergastolo per reati di opinione. E poi 2.700 giudici sono stati dimessi, 30 prefetti allontanati... e si potrebbe continuare a lungo.

La situazione carceraria del Paese è di conseguenza molto pesante: ci sarebbero almeno 230 mila detenuti, 1 ogni 350 cittadini. I detenuti sono distribuiti in 381 prigioni (di cui 139 inaugurate negli ultimi 10 anni), mentre altre 207 strutture carcerarie sarebbero in costruzione (76 quasi pronte, 113 in cantiere e 18 solo progettate).

E poi ci sono le conseguenze del voto di domenica: il “nuovo” presidente entra nel pieno dei poteri concessigli dal referendum del 16 aprile 2017, sempre voluto da Erdogan, che ha modificato la carta costituzionale in 18 punti. Oltre all’abolizione della figura istituzionale del primo ministro, che viene accorpata in quella dell’unico capo dello Stato, tra i “nuovi” poteri conferiti al presidente ci sono: la nomina di ministri e alti funzionari, la promulgazione di decreti legge presidenziali senza consultare il parlamento, il controllo dell’organo di governo della magistratura e la facoltà di nomina di 12 (su 15) giudici della Corte costituzionale.

Senza parlare delle politiche già in atto da tempo contro i curdi, dell’invasione in Siria, dell’appoggio ai jihadisti, degli affari con il Daesh, del sostegno pubblico alle scuole coraniche fondamentaliste. Riprendendo la speranza che Erdogan ha espresso domenica scorsa: «Spero che nessuno danneggi la democrazia», può stare tranquillo, perché nessuno potrà danneggiarla, ormai.

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