Dove ho trovato la speranza

A due anni dal terremoto che ha sconvolto l’isola, l’esperienza di volontariato di una cooperatrice.
Haiti

Nell’estate del 2009 ho iniziato a fare un corso in Cooperazione allo sviluppo all’università. Volevo fare l’esperienza di donare il mio tempo, il mio bagaglio professionale per metterlo al servizio in qualche Paese del Sud. Ma non avevo mai pensato ad Haiti. E chi me l’avrebbe detto che dopo otto mesi mi sarei trovata in un’avventura del genere! Uno dei momenti più emozionanti è stato quando sono arrivata a Santo Domingo, dove sono salita su un piccolo aereo delle Nazione Unite per giungere a Port-au-Prince: qui avrei portato avanti il mio lavoro. Ero proprio toccata dal fatto di sorvolare una città così devastata.

 

Quello che ha attirato di più la mia attenzione è stato che tutto sembrava uguale al giorno successivo al terremoto. Le immagini erano le stesse che avevo visto alla tivù. Non vedevo che montagne di macerie, i resti delle case crollate, e tendopoli ovunque. Ma c’era nell’ambiente, nell’aria, aldilà del caldo soffocante e della polvere, una voglia grandissima di lavorare e fare di tutto per questo popolo. Ed è vero che si lavora e si è lavorato tantissimo.

Sono arrivata a Port-au-Prince per assicurare l’acqua potabile in dieci campi e in due bidonville della città. Per fare il drenaggio nei campi, latrine e docce. Tutta una sfida!

 

All’inizio ero così entusiasta e avevo tutte le energie per dare il massimo, ma pian piano ho iniziato a capire che la realtà sociale e politica era assai complicata, le condizioni di vita nelle tendopoli terribili, e ancor più terribili nei quartieri d’intorno; nei campi in cui lavoravo e nelle bidonville tutto avanzava lentamente, a volte portare l’acqua potabile era un’avventura perché le strade non erano più transitabili e i camion non riuscivano a percorrere neanche un chilometro. Per chiedere qualsiasi permesso alle autorità servivano mesi; occorreva innanzitutto avere molta pazienza e non scoraggiarsi.

Un giorno mi sono accorta che tutti i “tap-tap” (i mezzi di trasporto più utilizzati) avevano dei leit-motiv scritti davanti, del tipo «Dieu est amour» (Dio è amore), oppure «Avec lui tout est possible» (con lui tutto è possibile), ed ho pensato: se gli haitiani sono sicuri di questo, del suo amore, e la pensano così, perché io no? Da ora in poi devo lavorare anch’io con questa certezza.

 

Un momento difficile è stato quello dell’annuncio di un’epidemia di colera nel Paese. Abbiamo lavorato 24 ore su 24, senza risparmiare energie e forze. Colpiti per il fatto di trovarci in mezzo a un’epidemia che ogni giorno avanzava di più, abbiamo continuato con la voglia di fare tutto il meglio possibile. Andando per i campi mi chiedevo cosa avrebbe fatto Gesù se fosse stato al mio posto. E pensavo a come lui avrebbe guardato e parlato a ciascuno; ora questi campi e questa gente mi sembravano sacri. Dovevo entrare in punta di piedi, e il trovarmi davanti a loro mi faceva sperimentare una forte presenza di Dio, con un volto ben preciso.

 

Un giorno mi sono trovata davanti a una casetta per fare la profilassi, poiché il colera si era portato via uno dei membri della famiglia. Oltre che essere lì per spiegare loro come disinfettare la casa e quale misure igieniche prendere, avevo l’impressione di essere lì per portargli un po’ del suo amore e offrirgli un po’ di speranza.

 

A due anni dal terremoto, si potrebbe pensare che nulla sia cambiato, che non siano stati fatti passi avanti. Ricordo i mass-media che sono venuti e tutti quelli che hanno visitato i nostri campi. Anche se abbiamo cercato di trasmettere tutto il positivo che c’era, la voglia di vivere di questo popolo, la voglia di lottare e andare avanti, all’indomani ho visto con tristezza che le notizie pubblicate non parlavano di speranza, anzi erano drammatiche. Ho pianto… Non c’era proprio speranza per questo popolo? E ancora una volta, sulla strada ho visto un cartellone molto grande, come si usa qui per annunciare l’apertura di una scuola, di un negozio, di una fiera: «Apertura della scuola “Maria modello di speranza”». Questo mi ha dato la risposta che cercavo e la speranza che ci sarebbe stata lei a proteggere, a guidare questo popolo. Ma soprattutto la speranza che a lei avrei potuto affidare tutto, i permessi non ottenuti, le dificoltà, i dolori, le persone.

 

Posso dire che questo è un popolo che ha sofferto e soffre molto, ma immensamente fiero della propria identità, un popolo che sa come mescolare il senso dell’umorismo quotidiano anche nelle tragedie della vita.

La cosa più bella è il rapporto creato con loro. Ogni giorno posso dire che Gesù passa per queste strade e questi campi di macerie e opera qualcosa.

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