Ci si prepara alla COP30 del 2025 in Brasile, un appuntamento cruciale nella lotta globale contro il cambiamento climatico. I leader mondiali e gli esperti si riuniranno per parlare di argomenti come la transizione energetica, i finanziamenti per il clima verso i paesi che ne necessitano e l’adattamento ai cambiamenti dell’ecosistema che sono già in atto. Molte delle decisioni che verranno prese in questo incontro arriveranno a conclusione di dibattiti lasciati aperti dalla COP29 del 2024 a Baku, in Azerbaijan.
Cosa ci lascia la COP29
Nonostante la COP29 sia stata un passo significativo per l’enorme problema ambientale che ci affligge, ha sottolineato la mancanza di un piano concreto e immediato per il 2030 in alcune aree essenziali, alimentando le critiche di coloro che pensano che la comunità internazionale stia procedendo troppo lentamente. Tuttavia, la conferenza ha sollecitato un’accelerazione degli sforzi per ridurre le emissioni e sostenere la transizione energetica. Si punta ora su soluzioni finanziarie innovative e sul rafforzamento degli sforzi per i paesi in via di sviluppo.

Il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres durante la COP29. (Foto Ansa EPA/IGOR KOVALENKO)
Ad esempio, i lavori sul New Collective Quantified Goal sono stati portati avanti. Si tratta di uno strumento importante affinché anche gli stati che non se lo possano permettere riescano comunque ad avviare una transizione ecologica. Rimane comunque un’iniziativa non completamente risolutiva e molto contrastata per una serie di criticità che presenta. Il rischio di diventare un debito economico importante per i paesi che lo ricevono è concreto. Per ora non sarebbero previsti, infatti, finanziamenti fondo perduto.
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni era presente alla COP29. Tra le sue posizioni, ha sostenuto l’importanza di una transizione energetica che non penalizzi l’industria nazionale, in particolare le aziende che continuano a utilizzare fonti di energia fossile. Questa sua posizione ha fatto discutere leader internazionali e attivisti. Secondo loro la protezione delle industrie fossili rischia di rallentare gli impegni per la decarbonizzazione globale, essendo quello climatico un problema urgente. Una delle questioni rimaste irrisolte dalla COP29 sembra essere la gestione della sicurezza energetica in un mondo con numerose guerre in attivo, l’Unione Europea ha cercato di evidenziare molto questo argomento.
Verso la cop30
A giugno 2025 la conferenza preparatoria a Bonn, poi la vera e propria COP30 dovrebbe avere luogo nel novembre 2025 a Belém, nella regione amazzonica del Brasile. Ecco che anche il luogo che la ospiterà non è stato scelto a caso. Un paese dalla straordinaria biodiversità e con uno dei polmoni più grandi al mondo atti a respirare e assorbire CO2. Allo stesso tempo, il disboscamento illegale e il bracconaggio sono fenomeni dilaganti che con molta incoscienza proseguono il loro operato, ostacolati con difficoltà. Tante le lotte delle popolazioni amazzoniche, che rischiano la vita per tutelare questo patrimonio. Una situazione altamente problematica e complessa. Infatti, proprio la salvaguardia della biodiversità sarà tra i temi principali.
La conferenza fornirà al governo di Luiz Inácio Lula da Silva l’opportunità di rafforzare il ruolo del Brasile nelle politiche ambientali globali e consolidare gli sforzi per un futuro sostenibile nella cooperazione. Sarà inoltre un’occasione importante per il Paese per dar voce alle comunità locali che si adoperano per la protezione delle foreste tropicali, sensibilizzare e generare azioni decisive. Inoltre, dovrebbero venire trattati alcuni dei temi rinviati dalla COP29, come la struttura dell’Adaptation Committee per l’adattamento e la resilienza ai cambiamenti climatici. Rafforzare la regolamentazione dei mercati del carbonio per evitare pratiche di greenwashing sarà un altro obiettivo. Inoltre, sebbene sia stato fatto qualche passo avanti, il “Fondo per i danni e le perdite” (Loss and Damage) e il finanziamento per la transizione energetica nei paesi in via di sviluppo sono ancora temi controversi che richiedono più chiarezza su cifre e modalità di erogazione dei fondi.
Le COP stanno facendo la differenza?
Tornando indietro nel tempo di qualche anno, le Conferenze delle Parti (COP) nascono come eventi annuali organizzati nell’ambito della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC). La prima COP, che si è tenuta a Berlino nel 1995, ha dato inizio a un lungo processo di trattative internazionali volte a costruire una risposta globale al cambiamento climatico. Tra i frutti dei summit ci sono il Protocollo di Kyoto della COP3, nel 1997, che ha stabilito degli obiettivi di riduzione delle emissioni. D’altra parte, siamo grati alla COP21 e agli Accordi di Parigi per la linea guida di non superamento dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali e a contenere il riscaldamento a 1,5°C.
Tuttavia, nonostante questi traguardi internazionali, gli accordi rimangono fragili sotto certi termini. Ad esempio la riduzione delle emissioni è obbligatoria solo per i paesi “sviluppati”, mentre i livelli dell’Accordo di Parigi non sono vincolanti. Tra l’altro, è recente la decisione del 47esimo presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump di uscire da questo trattato. Un’azione immediata, intrapresa appena dopo il suo giuramento, tra i primissimi ordini esecutivi da lui firmati. La ragione sembrerebbe essere principalmente volta al risparmio di milioni di dollari.
Negli ultimi anni gli sforzi per ridurre le emissioni sono stati resi più difficili da conflitti geopolitici, tra gli ultimi la guerra in Ucraina o in Medio Oriente, che hanno creato un delicato equilibrio tra sicurezza energetica e sostenibilità climatica, spostando le priorità dei paesi interessati. Molte nazioni, inoltre, non riescono a rispettare l’obiettivo di devolvere 100 miliardi di dollari per la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici. Le COP rimangono tuttavia uno strumento importante, ad esempio, per mantenere la pressione per azioni più impegnative e creare uno spazio apposito di discussione e una cassa di risonanza mediatica – che altrimenti avrebbe un impatto molto minore – di un problema che solo a livello internazionale può essere risolto in maniera efficace.
Un processo lento e il paradosso della rappresentanza
L’impatto del cambiamento climatico ha una varianza molto alta da paese a paese. Le isole del Pacifico, ad esempio, sono tra le più colpite con uragani e l’innalzamento del livello del mare che minaccia le risorse idriche potabili e le terre agricole. In Africa paesi come la Somalia, l’Etiopia, il Sudan e le regioni del Sahel sono a rischio siccità e desertificazione, in pericolo la sicurezza alimentare. Paesi come il Mozambico, nella fascia tropicale, affrontano inondazioni e cicloni che aumentano di intensità nel tempo.

Amazzonia, parco Serrania de Chiribiquete in Colombia. (Foto Ansa CESAR DAVID MARTINEZ)
India, Bangladesh e Pakistan soffrono ondate di calore estreme e inondazioni monsoniche, mentre le alluvioni minacciano Honduras, Guatemala ed El Salvador. La Colombia e il Perù, come l’Italia, soffrono la perdita di ghiacciai e le inondazioni fluviali. Nell’Artico l’impatto del cambiamento climatico è tra i più importanti, rendendolo una delle aree più vulnerabili. La perdita del ghiaccio marino riduce le possibilità di caccia e di movimento delle popolazioni artiche come gli Inuit del Canada e dell’Alaska. Sono solo alcune delle tante situazioni in evoluzione sul nostro pianeta che richiedono attenzione, e non abbiamo nominato l’impatto sulla flora e sulla fauna terrestre. È un processo di erosione del pianeta che corre molto più veloce degli sforzi che si stanno facendo per invertire i suoi processi.
Il fatto che i paesi più a rischio siano tra i meno responsabili delle emissioni è un problema ancora più grave. Paesi come Cina, Stati Uniti, India, Unione Europea e Russia sono tra i principali emettitori globali di gas serra. Esiste uno squilibrio evidente, un paradosso che si riflette nelle stesse dinamiche delle Conferenze sul cambiamento climatico. I paesi vulnerabili si trovano spesso in una posizione di svantaggio, nonostante siano tra i partecipanti più attivi a sostenere l’azione globale per la giustizia climatica. La ragione è nel fatto che i paesi industrializzati hanno un maggiore potere di negoziazione e un timore notevole per l’impatto economico delle politiche climatiche. Così, per aumentare la loro influenza durante i negoziati, alcuni paesi, come quelli insulari, si sono uniti in coalizioni come l’Alliance of Small Island States (AOSIS), fondata nel 1990.