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COP26, il lavoro incompiuto per salvare il pianeta

di Domenico Palermo

- Fonte: Città Nuova

Le soluzioni di compromesso adottate alla Conferenza Onu COP26 risentono di uno sguardo unilaterale ad una sola questione, quella climatica, che non permette di uscire da una spirale di guerra per le risorse. Tutte le azioni per mitigare l’effetto dello sviluppo sul clima si scontrano con un sistema economico basato sul conflitto e sul consumismo. Bisogna mettere al centro la convinzione che “tutto è connesso”. Dalla tragedia della deforestazione alla massa di denaro sprecata nella corsa agli armamenti.

Dopo COP26 restano i problemi, AP Photo/Andre Penner

Come per altri temi già affrontati è stato difficile trovare, durante la conferenza Onu sul clima COP26, un accordo per proteggere e ripristinare gli ecosistemi. La Dichiarazione dei capi di Stato e di governo su foreste e uso della terra, si pone gli obiettivi di ripristinare le foreste, contrastando la deforestazione, e di promuovere un uso sostenibile della terra, rivedendo le pratiche agricole e rispettando gli usi delle popolazioni native. Ma questi impegni diverranno operativi dal 2030. Quindi in questi 8 anni si potrà continuare con il trend attuale, fatto di deforestazione e agricoltura intensiva. Sicuramente il punto di non ritorno si raggiungerà prima del 2030, sia per l’Amazzonia sia per le altre foreste, tra cui quella della Repubblica Democratica del Congo, dove la guerra per le risorse, che si protrae ormai da troppi anni, non permette in alcun modo di proteggerle. Inoltre, nessuno si è posto il problema di come questa dichiarazione si possa conciliare con la privatizzazione dei beni comuni, a partire dall’acqua, e con l’agricoltura intensiva. Questo accordo appare più una dichiarazione, nei fatti, vuota, visto anche come in questi giorni stia accelerando la deforestazione in Brasile, ad un ritmo impressionante. Brasile che ha firmato l’impegno!

Il lento superamento delle fonti fossili di energia
L’obiettivo di raggiungere la transizione verso trasporti su gomma ad energia elettrica nei mercati avanzati nel 2035 e negli altri Paesi nel 2040, rappresenta l’iniziativa più plausibile, che permetterebbe di ridurre del 10% le emissioni globali di gas serra. Ma quest’ultima iniziativa, non presupponendo alcun cambiamento nei modi di consumare, sposterebbe il problema dall’uso di fonti fossili per muovere le auto al problema di come procurarsi tutta l’energia necessaria per spostarsi. Aprendo al problema di come sostituire le fonti fossili. Se i movimenti ambientalisti e molti Paesi spingono sull’uso delle energie rinnovabili, altri Stati puntano sull’uso dell’energia nucleare, con tutti i problemi relativi all’impatto ambientale di questa tecnologia. Ma si apre anche il problema del reperimento di quelle materie prime strategiche necessarie per la costruzione degli accumulatori di energia e della tecnologia necessaria per la produzione dalle rinnovabili, che tanta devastazione e guerra stanno provocando nei Paesi poveri, come Brasile, Repubblica Democratica del Congo, e, in generale, in Africa, Sud-Est asiatico e Latino-America.

Lo sguardo unilaterale ad una sola questione, quella climatica, non permette di uscire da una spirale di guerra per le risorse, perché bisogna mettere al centro la convinzione che tutto è connesso. Su questo tema, con la definizione di una tassonomia per la transizione ecologica, si sta confrontando l’Unione Europea, la quale ha deciso di inserire fra le fonti energetiche sostenibili e finanziabili anche l’energia nucleare e quella prodotta con la combustione del gas, decidendo di preservare la propria economia ed il proprio sviluppo. A questo proposito, la COP26 è stata la prima ad occuparsi dell’impatto del gas, compreso il metano, e prevedere, in uno specifico punto nel Glasgow Climate Pact, l’invito ai Paesi partecipanti di considerare la riduzione del 30% delle emissioni derivanti dall’uso del gas, compreso il metano. Questo fa capire che gli impegni presi in COP vengono poi interpretati secondo gli interessi egoistici dei Paesi.

Tutte le azioni per mitigare l’effetto dello sviluppo sul clima si scontrano con un sistema economico basato sul conflitto e sul consumismo. Tutto ciò non permette di cambiare realmente il modo con cui stiamo devastando la nostra casa comune.

Adattare e Finanziare
La COP26 ha cercato di promuovere l’adozione di strumenti finanziari e di trasferimento di tecnologia per convincere le nazioni in via di sviluppo a intraprendere la via della transizione ecologica per contrastare i cambiamenti climatici. Nonostante gli sforzi per convincere i Paesi ricchi che, soprattutto dopo la pandemia da Covid-19, i bisogni dei Paesi più poveri sono aumentati e non possono essere in grado di sostenere lo sforzo di una transizione da soli, nessun passo avanti sostanziale è stato fatto. Ne sono prova le azioni compiute dall’India, anche in nome e per conto degli altri Paesi in via di sviluppo. Purtroppo, i Paesi sviluppati che nel 2009 avevano stabilito di stanziare 100 miliardi di dollari l’anno dal 2020 al 2025 per finanziare la riduzione delle emissioni da fonti fossili dei Paesi in via di sviluppo ed il loro adattamento tecnologico ai cambiamenti climatici in corso, non hanno ancora mantenuto i loro impegni.

Inoltre, l’atteggiamento tenuto rispetto alla condivisione dei vaccini per combattere la devastante pandemia in corso, ha lasciato intendere che non ci sarà alcuna condivisione reale di tecnologia per contrastare le perdite e i danni che i Paesi in via di sviluppo stanno subendo e subiranno. Per ridurre la vulnerabilità dell’umanità verso i cambiamenti in corso, la certezza dei finanziamenti e la condivisione delle conoscenze acquisite dai Paesi sviluppati verso quelli in via di sviluppo dovrebbero divenire il nuovo modo di intendere la solidarietà, basata sul principio che si è tutti sulla stessa barca. Purtroppo lo spirito di competizione e di opportunismo che guida le relazioni internazionali non ha permesso di cambiare lo sguardo verso il futuro, che resta molto incerto.

Collaborare
Il lavoro dei delegati ha portato a compimento i contenuti ancora non definiti nell’accordo di Parigi. Questo è uno dei punti più importanti, perché sono state definite le ultime questioni aperte, sintetizzabili, sostanzialmente, in tre punti:

1) le parti dell’articolo 6 riguardanti la cooperazione volontaria, un nuovo meccanismo del mercato dei crediti del carbonio e una definizione degli approcci non mercantili per costruire un reale approccio di collaborazione fra tutti i Paesi;

2) l’articolo 4, paragrafo 10, per delineare un comune arco di tempo per la presentazione dei NDC, Nationally Determined Contribution;

3) l’articolo 13 per la definizione di un trasparente framework comune per comunicare i dati relativi alle emissioni, alle azioni intraprese e al raggiungimento degli impegni presi.

Tutti questi punti, apparentemente di poca importanza, avranno invece un impatto per capire meglio dove sta andando il mondo e, quindi, saranno uno strumento importante per costruire una transizione ecologica con un linguaggio comune a livello mondiale, limitando il rischio di difformità fra i dati dei diversi Paesi, creando la consapevolezza della necessità di agire in unità e solidarietà.

La COP, la conversione ecologica e le spese militari
Le Conferenze delle Parti sono un utile strumento per costruire una reale volontà globale di cambiamento. Lo scoglio più grande da superare è rappresentato dalla diffusione dell’idea di realpolitik che i rapporti internazionali si fondino solo sulla competizione, la dissuasione armata ed il conflitto. Questo atteggiamento, assieme ad una società globale consumista, non permette di comprendere che tutto sia connesso e, quindi, di costruire un reale percorso di conversione ecologica, necessaria non solo per affrontare il cambiamento climatico, ma per creare le basi per ben vivere. A questo proposito, un piccolo esempio di come si potrebbe affrontare praticamente la crisi che stiamo vivendo è l’appello dei 50 premi Nobel (https://peace-dividend.org). Loro hanno chiesto alle potenze mondiali di proporre un accordo internazionale per ridurre del 2% le spese militari in ogni Paese per 5 anni, liberando in questo modo risorse per mille miliardi di dollari che potrebbero essere impiegate per costruire un futuro per le nuove generazioni, attraverso il finanziamento dei problemi più gravi: la pandemia, la crisi climatica, l’estrema povertà.

Inoltre sposterebbe risorse dalla ricerca militare verso la ricerca rivolta alla costruzione del bene comune,facendostrada alla costruzione di una società diversa, capace di aprirsi alla conversione integrale. In questo modo, gli impegni presi nelle diverse Conferenze delle Parti potrebbero tradursi in pratica. Altrimenti, a guidare le politiche ambientali saranno solamente le convenienze di corto respiri di ogni Paese. I risultati di questo atteggiamento sono sotto gli occhi di tutti noi, in quanto non hanno contribuito a costruire il bene comune, ma hanno desertificato l’umanità e la casa comune, il pianeta in cui viviamo.

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