Cibo, agricoltura e clima

L’aumento di eventi climatici estremi può avere conseguente negative sulle coltivazioni. La regione mediterranea è molto vulnerabile. Quello che mettiamo nel carrello della spesa può contribuire a migliorare o peggiorare la situazione.

I segnali ci sono: i cambiamenti climatici agiscono sull’agricoltura più di quanto si immagini. A rischio è l’alimentazione di una popolazione mondiale che si avvia verso i nove miliardi. Fenomeni apparentemente episodici, all’occhio esperto rivelano, invece, una tendenza assai preoccupante.

Già nel 2008, ben 13 anni fa, intervistato da Vittorio Marletto, Giampiero Maracchi, climatologo di fama internazionale deceduto nel 2018, fondatore e direttore dell’Istituto di Biometeorologia del Cnr e presidente del Centro di Studi per l’applicazione dell’Informatica in Agricoltura, sosteneva che l’aumento degli eventi estremi e le modifiche stagionali «possono avere conseguenze sull’agricoltura, esponendo le colture ai rischi di gelate tardive e creando microclimi in grado di variare la suscettibilità ad agenti biologici avversi». Le gelate di marzo e aprile 2020 e 2021 lo hanno dimostrato.

«I recenti rapporti speciali dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) – evidenzia il Centro Euro-Mediterraneo dei cambiamenti climatici nel report Analisi del rischio. I cambiamenti climatici in Italia – hanno indicato già evidenti variazioni significative della produttività colturale a livello globale, con impatti differenti a seconda delle aree geografiche e delle specie e varietà coltivate. Questi effetti saranno ancora più marcati con le variazioni climatiche attese per i prossimi decenni, soprattutto in areali altamente vulnerabili come la regione Mediterranea».

L’obiettivo 2 dell’Agenda Onu 2030, relativo all’eliminazione della fame, potrebbe essere compromesso. Lo dice sempre l’Ipcc nel rapporto Riscaldamento globale di 1,5°. Il calo di produzione agricola potrebbe oscillare tra i 40 e 190 miliardi di dollari con un’impennata nei prezzi alimentari globali tra il 3 e l’84 per cento entro il 2050.

L’Italia non può considerarsi in una botte di ferro. Le conclusioni del Progetto Europeo Peseta sono inequivocabili: il Paese rischia una riduzione delle attuali rese di mais del 25 per cento e di frumento addirittura del 50 per cento. Tuttavia, qualche elemento positivo potrebbe esserci: l’aumento di anidride carbonica ha anche un effetto fertilizzante.

«Prove sperimentali – spiega Luigi Cattivelli, direttore di Genomica e Bioinformatica al Crea, il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia – mostrano che un frumento coltivato a 550 ppm di anidride carbonica produce circa l’uno per cento in più, ma con una diminuzione del contenuto di proteine e minerali». Calo di produzione e fertilizzazione da carbonio potrebbero bilanciarsi e il risultato per l’Italia potrebbe non esser così negativo. Ne risentirebbe soprattutto l’agricoltura di Sicilia, Sardegna e Puglia.

Il rapporto tra agricoltura e cambiamenti climatici non è semplice da comprendere. Pur non tenendo conto della silvicoltura, della deforestazione e delle variazioni nell’uso dei suoli, il settore contribuisce ai gas serra in atmosfera per circa il 12 per cento del totale, soprattutto con emissioni di metano (coltivazioni di riso e allevamenti) e protossido di azoto (fertilizzanti). Entrambi sono gas climalteranti più efficaci dell’anidride carbonica nel surriscaldare il pianeta, ragion per cui il contributo della produzione di cibo alle emissioni di gas serra è più importante nel breve periodo. Di fatto i fattori che permettono l’aumento della quantità e il miglioramento della qualità degli alimenti sono gli stessi che danneggiano gravemente l’ambiente.

Come se ne esce? Non c’è una soluzione semplice e ogni strada va valutata con attenzione. Qualcosa, però, è chiaro fin d’ ora: la dieta è parte del problema. «La tipologia, la composizione e la quantità di cibo prodotto e consumato incide in modo significativo sia sulle emissioni totali di anidride carbonica, sia sulla richiesta umana nei confronti della natura in termini di rapporto tra consumo di risorse e capacità della terra di rigenerarle», spiega il Barilla center for food nutrition nello studio Cambiamento climatico, agricoltura e alimentazione.

Con la dieta americana, ricca di proteine animali, ogni persona produce, ogni giorno, 5,4 chili di anidride carbonica, con quella mediterranea, basata su vegetali e frutta, 2,2 chili. La differenza è evidente. «Ogni acquisto di cibo – dice Carlo Petrini nella Guida di lettura alla ‘Laudato sì’ – riveste un’importanza cruciale, perché cosa mangiamo orienta cosa coltiviamo e come coltiviamo». Quello che mettiamo nel carrello della spesa, dunque, è un atto fondamentale, il primo passo di un cambiamento che può essere epocale.

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