Vendemmia 2007

Come se niente fosse. Anzi, come se Il Niente fosse. L’industria della musica tira avanti come può e, puntuale come ogni autunno, allaga i mercati coi pezzi forti pensati per il rush natalizio, ultima spiaggia per tentare almeno d’arginare i deficit, le mutazioni, e le depressioni in corso. I dischi insomma continuano ad uscire e la vendemmia 2007, al pari di quella enologica, offre grappoli di qualità perfino superiore alle attese e alle premesse. Ce n’è per tutti i gusti e tutti i palati. Tra i beaujolais di stagione spiccano, per esempio, i ritorni di alcuni giovani ormai svezzati, come la scozzesina KT Tunstall (nel segno del folkrock d’autore è il suo Drastic Fantastic), o il bravo Peter Cincotti (un crooner à la Bubblè in convincente svolta cantautorale nel recentissimo East of Angel Town), o il gradevole retro-rock dei britannici Coral con il loro Roots & Echoes. Salendo di gradazione e corposità, val la pena menzionare alcuni ritorni importanti e per molti versi anche sorprendenti. Per la black-music segnalo il delizioso Lifeline di Ben Harper, un dischetto registrato in soli otto giorni in coda al suo ultimo tour europeo, dove il nostro fa il verso ai maestri del soul che fu senza scimmiottarli. Buono anche l’attesissimo Magic del boss Springsteen, un album decisamente virato verso il rock d’autore, dopo le sbornie folkettare dei suoi ultimi lavori: non sarà all’altezza dei suoi capolavori assoluti, ma le sue nuove canzoni sanno ancora raccontare l’America (anche quella che ancora s’annida nel subconscio di noi europei) meglio di chiunque altro. Stilisticamente limitrofa e ugualmente ispirata, anche la ruvida colonna sonora di Into the wild, ritorno solista del leader dei Pearl Jam, Eddie Vedder. Cambiando ambito, due parole le merita anche La radiolina di Manu Chao; il principe dei noglobal è riuscito a dribblare le trappole tipiche del barricadero di successo con una manciata di brani che non abiurano il ribellismo stradaiolo dei suoi anni ruggenti, ma lo rivestono con abiti ed atteggiamenti più acconci al ruolo, ormai acquisito, di rockstar cosmopolita: un’impresa tanto ardua quanto necessaria, portata a casa con mestiere, furbizia e senso della misura. Sono gli stessi ingredienti utilizzati dalla rediviva Annie Lennox nel suo corposo Songs of mass destruction, un album intriso d’impegno civile e tematiche socio-politiche d’alto profilo. Il tutto reso credibile da una voce mirabile e soprattutto da un plurien- nale impegno sul campo e in prima persona: così da evitare di infarcire di retorica una manciata di canzoni scelte – con urgenza presumibilmente sincera – per dare al proprio mestiere finalità anche extraeconomiche. Buone notizie anche dai vitigni italiani. Ne segnalo tre, diversissimi tra loro, ma ugualmente notevoli per gusto e pregnanza. Intanto Mina, e il suo Todavìa: una disco latineggiante confezionato con suprema perizia; un esercizio interpretativo omogeneo ed originale, oltreché impreziosito da suggestivi duetti con Chico Buarque, Tiziano Ferro, il rilanciato Miguel Bosè e Manuel Serrat. Poi i nuovi Marlene Kunz: il loro settimo album, intitolato semplicemente Uno parla d’amore e di passioni con un piglio meno rockeggiante e più letterario del solito (bella l’idea di farne commentare le liriche ad affinità elettive quali Paolo Conte, Stefano Benni e Carlo Lucarelli). Un album necessario per dar più dignità e spessore alla nuova musica d’autore italiana, cui il trio cuneese va certamente ricondotto. Infine Boogaloo, ultimo nato nella discografica di Giuliano Palma e dei suoi Bluebeaters, un ensemble che sa far divertire senza banalizzare, che sa reinventare i classici dei Sessanta e Settanta con gusto contemporaneo, e che sa emancipare gli stereotipi dello ska su lidi più nobili e variegati. In alto i calici dunque: sperando non sia lo stesso prosit di chi sta banchettando su un Titanic…

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