Vecchie e nuove tendenze

Ora che si  avvicina la primavera, con i cambiamenti climatici consueti, anche il cinema insiste in una uscita a catena di lavori

Parlare di fioritura sembra troppo, perché i generi sono i soliti: dramma, mélo, commedia, avventura, autobiografia.  A cui s’è ormai aggiunta da tempo la moda dei revival, ossia dei rifacimenti o sequel di prodotti a loro tempo ben riusciti. Tanto per fare un esempio, si parla di Trainspotting 2.0 in cui i quattro amici anarchici del 1997, ancora diretti da Danny Boyle, si ritrovano puntando ad un riscatto,  ma finendo per imprigionarsi in nuove avventure distruttive e surreali. E soprattutto vivendo pieni di rancori e di un passato che non si cancella facilmente. Insomma, se vent’anni fa gli amici erano solidali nella loro follia distruttiva, ora amici più non sono e vivono una sorta di incubo ancor più drammatico. Altro che positività. Il sequel del film-cult  non è proprio all’altezza dell’originale.

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Ma, tornando alle vecchie e nuove tendenze, potremmo individuare alcuni percorsi, in cui passato e presente si miscelano tranquillamente, con qualche novità.

Commedie

È il caso di Beata ignoranza di Massimiliano Bruno. La solita commedia all’italiana è affidata ad un duo inimitabile, ossia Alessandro Gassmann e Marco Giallini. I due fanno i prof nella medesima scuola, il primo vive nella dipendenza dai social network – ed è ignorante –,  il secondo, di stampo antico, li detesta. In mezzo stanno gli studenti che tifano per Gassmann, ovviamente. I due però non si possono vedere, perché c’è un passato, con una figlia che si fa avanti, li scuote e li costringe per un certo tempo a scambiarsi i ruoli, con tutto ciò che ne consegue.  Il film è astuto: mette insieme due personaggi opposti – cosa tutt’altro che  nuova – con l’oggi della scuola e della famiglia, dove regna  la confusione più  incosciente. Non solo nella scuola ma nella famiglia c’è tutto e il suo contrario e si vive con beata – fino ad certo punto – tranquillità. Satira benevola, amara costatazione dello scadimento culturale attuale, lancio di messaggi subliminali tipo «la vera paternità non è quella biologica ma quella affettiva»? Bruno miscela tutto e accontenta tutti con un film scintillante, dialoghi brillanti, recitazione simpatica.  Ma tutto rimane leggero.  Nessuno sceglie. Non rischia di essere un po’ troppo qualunquista?

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Blockbuster

Cinesi e americani  si sono messi insieme. Dollaro e yen si sono uniti per far affari ed ecco il film che li pubblicizza, ossia il megaprodotto cinese diretto da Zhang Yimou con la star americana Matt Damon The Great Wall. Storia incredibile del XII secolo in cui due tipacci europei vengono catturati dai soldati della Grande Muraglia, ne colgono i segreti e combattono insieme  per liberare i cinesi dall’invasione dei mostri. Un minimo di simpatia fra Damon e la condottiera, ma nulla di più. Un cocktail apocalittico in 3D dove l’americano è il liberatore dal male – cosa vecchia –,  ma – cosa nuova – insieme al drago cinese: così vuole l’economia del Duemila! Effetti speciali, battagli e voli, horror, misteri della grande civiltà cinese: sarà un successone, in Cina e fra i cinesi d’America. Costumi e scenografie curatissimi, regia modesta, Matt Damon superpagato, inespressivo ed un piccolo ruolo per Willem Defoe (che assomiglia a Michelangelo). Ma è un divertimento per gli occhi e alla fine non dura nemmeno due ore, il che è un vantaggio. Simpaticamente e astutamente commerciale, a dire la pax economica cino-americana alle folle abituate ormai ai filmoni pseudo-epici medievali in salsa pubblicitaria.

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Autobiografie

Ferzan  Ozpetek  ci  ha ormai abituati:  ogni suo film è una sorta di diario personale, espressione del mondo che si è creato intorno e in cui vive, con attori ben scelti – qui sono star del cinema turco –, recitazione curata, ambientazione di stile “decadente” (non in senso peggiorativo). Questa volta attinge ancora di più da sé stesso, filmando Rosso Instabul, da un suo libro del 2013. Un lavoro percorso da una languente nostalgia della città dov’è nato, dell’infanzia e adolescenza, della  famiglia – la madre –, degli umori, sapori, visioni di una bellezza ora violentata dallo sviluppo (trivelle, grattacieli) e da tensioni sociali (rapide apparizioni di poliziotti, di curdi in fuga, di madri di desaparecidos). Ozpetek si  racconta attraverso due personaggi: lo scrittore Orhan Sahin che dopo vent’anni di Inghilterra torna in città ad aiutare il regista Deniz a finire un suo libro. Il racconto  finisce per complicarsi in una sorta di trhiller, perché il regista sparisce ed affiorano altri personaggi, altre vite:  Neval – donna affascinante – e Yussuf, l’uomo a cui il regista è legato. Attraverso il  rapporto con costoro, tra silenzi, inseguimenti, allusioni, lo scrittore ripercorre la sua vicenda, i traumi del passato, la fuga all’estero, e la necessità di non scappare dalla cosa più importante, l’amore.

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Sono i temi di Ozpetek:  malinconia, amore per la bellezza (Istanbul apre e chiude il film come una icona di meraviglia), omosessualità  (meno evidente del solito), contrasto tra vita e morte. Mélo e trhiller si miscelano in un film lento, a tratti pesante come non riuscisse  a sbloccarsi. È come se il regista seguisse un intreccio di emozioni, di pensieri che non riescono a sciogliersi  subito ed hanno bisogno di lunghi primi piani dei protagonisti, che vorrebbero dire tante cose: l’anima, specialmente.

La casa “rossa” in cui si ambienta il film è il rosso della passione. Che non si può nascondere e che porta alla vita e/o alla morte. Ozpetek si confessa sotto le apparenze di una piccola storia non troppo originale. Ma originale è il flusso di  ricerca della libertà che questo mare del  Bosforo onnipresente dimostra, tanto da essere coprotagonista del racconto, reso vivo da una fotografia raffinata. Istanbul è la città incantata e malinconica agli occhi del regista nel suo film intimo, molto pensato, a cui manca forse un tocco di spontaneità e di leggerezza, trattando di una realtà così profonda come l’amore e la morte.

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Religione

Difficile fare un film “religioso” nel senso ortodosso del termine. Full of grace (piena di grazia) scritto e diretto da Andrew Hyatt ci prova in 85 minuti, raccontando gli ultimi anni di Maria sullo sfondo delle difficoltà della chiesa nascente. Pietro è dubbioso, non sa  cosa fare, Maria lo consola e gli dà un consiglio, forse il migliore: ritornare  con l’animo al tempo della “chiamata”, al mare dove essa è avvenuta e ascoltare. Un messaggio autentico, vero, ed è la parte più interessante di un lavoro di stile catechetico, ambientato più al chiuso “caravaggesco” che all’aperto, di ritmo teatrale. Pur con i suoi limiti, non è il solito film pseudo-religioso oggi in circolazione. Gli attori – Pietro (Noam Kenkis) e Maria (Bahia Haifi) – sono convincenti, la regia essenziale. Purtroppo, la musica non riesce ad eliminare i coretti angelici tradizionali per dare il senso del soprannaturale. Il silenzio non avrebbe fatto del male.

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