Uscire dal carcere al termine della pena

Considerazioni e attese di un detenuto in attesa del giorno della libertà ormai vicina. Paure, desiderio di riprendere le fila di una vita, volontà di riparare e sulla necessità di cambiare il sistema detentivo
ANSA/MASSIMO PERCOSSI

L’uscita dal carcere al termine della pena è un momento tanto atteso, quanto temuto; quando si sa di non avere persone che ti attendono, né concrete opportunità di quel reinserimento sociale e lavorativo, attorno al quale ruotano tante affermazioni di principio, spesso irrealizzabili da parte dei detenuti.

Il cosiddetto rientro nella società civile, quasi che fosse il rientro da un altro pianeta, specialmente quando sono trascorsi molti anni, comporta il dover affrontare un impatto notevole.

Il mondo di fuori è nel frattempo cambiato molto nell’aspetto, negli stili di vita e nell’organizzazione sociale. Nel carcere non si può avere una percezione realistica dei mutamenti che avvengono, si è tagliati fuori da ogni interazione, salvo qualche rara occasione, ma accuratamente filtrate e delimitate.

Spesso non ci sono più quei legami affettivi che davano tanto sostegno, qualche persona cara è mancata, la famiglia se c’era ora può non esserci più, spesso dissolta sotto il peso insostenibile della separazione: mogli che si separano, figli che non ne vogliono più sapere. Poi che fine hanno fatto gli amici, le persone conosciute, tutta quella rete di relazioni che un tempo il tuo presente ed il tuo futuro?

Dopo averlo a lungo sognato, desiderato questo fine pena, man mano che si avvicina, mette un’ansia terribile, può diventare un incubo. Spesso non esiste posto dove andare a vivere, non c’è di che sostenersi, si deve cercare alloggio in qualche comunità, oppure affidarsi alla sorte che spesso significa ritornare nel “giro “.

Altra ipotesi può essere quella di avere un’età ancora accettabile per tentare un inserimento lavorativo.

La mia famiglia esiste ancora ed è stata anche per loro una “galera “, ma siamo ancora uniti e pronti a voltare pagina affrontando insieme le difficoltà che sicuramente non mancheranno.

La libertà sarà a portata di mano quando si spalancherà il portone del carcere, ma io sarò veramente libero?

Sarò diventato in questi anni un uomo diverso, capace di affrontare la vita accettandone le regole, pronto a lavorare per restare onesto? Avrò compreso il male e la sofferenza inferta ad altri o avrò semplicemente rimosso tutto per non soffrire a mia volta, ritenendo sufficiente la pena espiata?

Per questo sono importanti in carcere tutte quelle iniziative di cui si lamenta la grave carenza, ovvero quelle attività culturali, formative, lavorative e di sostegno capaci di aprire spiragli di luce che lasciano intravedere scenari nuovi e spesso sconosciuti, ma desiderabili e degni di essere perseguiti a costo di sacrifici e di fatica.

È più che giusto pagare il debito con la società, ma non è corretto scontarlo in modo incivile. Basta contare i suicidi che avvengono nei nostri carceri, per capire che spesso ogni speranza di recupero e di reinserimento nella società e quindi verso una nuova vita viene negata proprio da coloro che dovrebbero garantire la legalità ed il senso di civiltà nel nostro paese.

Lo stato a volte è il primo colpevole. Per uscire da questa matassa bisogna che il Paese decida cosa fare di noi detenuti. Ovviamente non si può riflettere su tale argomento senza parlare delle vittime dei reati. Ai fini della coesione sociale bisognerebbe assicurare a tutti i condannati che lo richiedono, la possibilità di risarcire le vittime dei reati.

A tal proposito, lo stato dovrebbe predisporre la possibilità di svolgere un lavoro che consenta, con il trattenimento di una parte dello stipendio, di risarcire le parti lese.

E se tutto questo non fosse possibile si dovrebbero impiegare i detenuti in lavori socialmente utili che possano – in qualche modo – economicamente servire al bene comune.

Queste soluzioni, oltre a svolgere un importante ruolo di pacificazione sociale, sarebbe altamente educativo per che ha commesso reati e gli consentirebbe di prendere piena coscienza del suo errore permettendogli di rientrare poi a pieno titolo nella società.

Solo garantendo condizioni umane e dignitose ai detenuti e facendo in modo che questo percorso sia uguale per tutti, solo allora l’Italia potrà considerarsi a pieno titolo uno stato veramente civile, che pone la salvezza dell’uomo a fondamento del sistema penitenziario.

A.G.

Sulla questione carceraria vedi il dossier Carcerati edito con la rivista da Città Nuova e rchiedibile a segr.rivista@cittanuova.it

 

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