Una spiritualità di comunione

Girando nel cosiddetto “popolo di Chiara”, o “popolo focolarino”, secondo le definizioni coniate dall’immaginazione di Sergio Zavoli, popolo che, come si sa, conta qualche milione di aderenti e simpatizzanti in almeno 182 paesi del mondo, una cosa non può non venire in rilievo: è gente che non ama la solitudine. Si incontrano in effetti uomini e donne che cercano il rapporto, che non esitano a organizzare incontri o a mettersi attorno a un tavolo, a favorire riconciliazioni e a promuovere nuove aggregazioni. Che sia un meeting per risolvere il problema delle fogne di una favela di San Paolo in Brasile, oppure un momento di preghiera per l’unità dei cristiani in un quartiere della periferia di Berlino, o ancora un incontro tra politici nelle Filippine per formulare una proposta di pace con le popolazioni musulmane del sud” Perché? Perché i focolarini incontrano buddhisti e indù e musulmani ed ebrei, perché vogliono dialogare anche con chi una fede religiosa sembra non averla? Il fatto è che alla base di ogni azione promossa dal movimento c’è una spiritualità che viene definita “comunitaria” o “collettiva”, una “spiritualità di comunione”. Ed è di essa che parliamo con Hubertus Blaumeiser, teologo cattolico tedesco, esperto di teologia luterana e professore all’Università Gregoriana di Roma. Il Vaticano II ha introdotto nella costituzione Lumen gentium il concetto di “chiesa-popolo di Dio”. Chiara Lubich parla invece di “chiesa-comunione”. Quali le continuità, quali le novità? “Vedrei, per la verità, piena sintonia. Quando il Concilio parla di “popolo di Dio”, vuole sottolineare che la chiesa non vive fuori della storia, ma profondamente inserita nelle vicende dell’umanità; e vuole allo stesso tempo ribadire la fondamentale uguaglianza di tutti i battezzati, prima di ogni differenziazione in ministeri, vocazioni, carismi. Due accenti che non possono non essere connaturali ad un movimento ecclesiale come i Focolari. “D’altra parte, l’autocomprensione della chiesa proposta dal Vaticano II è proprio quella della “chiesa-comunione”; comunione che affonda le radici nella Trinità ed è destinata a coinvolgere tutta l’umanità. Fa pensare il fatto che venti anni prima del Concilio, nella persona di Chiara Lubich, sia sorto un carisma che offre alla chiesa non tanto, o Michele Zanzucchi almeno non solo, un approfondimento teologico sulla “chiesa-comunione”, ma soprattutto una “spiritualità della comunione”, ovvero uno stile di vita evangelico senza il quale – come si vede a quasi quarant’anni dal Concilio – la grande visione della “chiesa-comunione” rischia di non avere le “gambe” per camminare. Direi quindi che c’è forte sintonia, ma c’è anche un prezioso know how, una via della vita per la Chiesa di oggi”. Nella Chiesa cattolica, il Vaticano II ha avviato un processo di mutamento da una organizzazione piramidale a una più partecipata. I movimenti favoriscono questa transizione? “Va salvaguardato, senz’altro, il ruolo specifico del papa e dei vescovi – l’autorità è un dono, ha riconosciuto pochi anni fa un importante documento cattolico-anglicano -, ma occorre concepirlo all’interno della comune vita in Cristo: non come il vertice di una piramide, ma come indispensabile ed autorevole punto di riferimento in seno alla chiesa, e quindi come criterio d’autenticità. “Con la loro irrefrenabile spinta alla comunione e la loro contemporanea sensibilità alla grazia del ministero petrino e di quello episcopale, i movimenti ecclesiali (non solo laicali) sono, indubbiamente, un importante contributo, ed anzi un vero “segno dei tempi”. Per la loro composizione variegata, essi pongono in comunione tra loro persone di tutti gli stati di vita: laici, consacrati e ministri ordinati. Visti così, essi rappresentano un’esperienza di avanguardia. Direi che sono come “laboratori”, vere e proprie “scuole di comunione. . .”. Giovanni Paolo II, in particolare nella Novo millennio ineunte, parla esplicitamente di una “spiritualità di comunione” che dovrebbe essere adottata da tutta la chiesa. Quali caratteristiche dovrebbe avere questa spiritualità? “Per quanto mi risulta, il papa ha parlato per la prima volta di “spiritualità di comunione” quando nel febbraio 1995 ricevette in udienza un folto gruppo di vescovi amici del Movimento dei focolari, assieme a Chiara Lubich. In quell’occasione, rilevò il carattere inscindibilmente personale e comunitario della sequela di Cristo. E sottolineò che il grande compito della nuova evangelizzazione non potrebbe avere successo senza una “robusta spiritualità di comunione”. Negli anni successivi, questa convinzione sembra essersi ulteriormente rafforzata nel papa, come ben testimonia quello scritto programmatico per la vita della chiesa del terzo millennio che è la Novo millennio ineunte. “Ma che cosa vuol dire “spiritualità della comunione”? Secondo Giovanni Paolo II significa riconoscere quella stessa luce del mistero della Trinità che abita dentro di noi, anche sul volto dei fratelli. E sapersi legati con i propri fratelli di fede “nella profonda unità del Corpo mistico”. Chiara Lubich, in uno scritto dei primi anni dei Focolari, si era espressa così: “Dio che è in me, che ha plasmato la mia anima, che vi riposa in Trinità, è anche nel cuore dei fratelli. Non basta quindi che io lo ami solo in me”. Occorre – afferma ancora – “saper perdere Dio in sé per Dio nei fratelli”. E precisa: “E questo lo fa chi conosce ed ama Gesù crocifisso ed abbandonato”. Direi perciò che la caratteristica decisiva di una spiritualità di comunione è l’amore per Gesù crocifisso come via all’unione fraterna, come il papa ha più volte ribadito. Qual è stato e qual è il contributo del movimento a questa visione comunitaria della chiesa? “Nel momento in cui è sorta – venti anni prima del Concilio – la spiritualità di comunione era una forte novità e suscitava non poche perplessità. Per secoli, si era stati concentrati sulla via del singolo verso Dio. D’altra parte, un approccio del genere ha vigorose radici nel Nuovo Testamento, e si pone in forte conti- nuità con il pensiero dei Padri della chiesa. Sin dai primi decenni del XX secolo, poi, era in atto una riscoperta della chiesa come mistero di comunione. Il carisma di Chiara Lubich è arrivato quindi ad hoc. “Il contributo che ne è venuto? Riguardo agli insegnamenti del Concilio, l’insistenza sulla comunione ha certamente molteplici fonti. Non va dimenticato che Paolo VI ed altri padri conciliari avevano avuto modo di conoscere da vicino il carisma dei Focolari. Per i decenni successivi, mi sembra fuori dubbio che la spiritualità dell’unità abbia profondamente influito sia sulla vita della chiesa universale che di molte chiese locali. Uno dei segnali più significativi è senz’altro l’insistenza della Novo millennio ineunte sulla necessità di una spiritualità di comunione. Ma non meno importante è il rinnovamento di tante parrocchie, di singole comunità e di intere congregazioni religiose; l’impegno dei Focolari per la comunione fra i movimenti ecclesiali e l’impulso che ne nasce per la nuova evangelizzazione; l’aiuto che tanti vescovi e sacerdoti trovano in questa spiritualità per la loro vita personale e per il loro ministero. Per non parlare delle promettenti prospettive che si sono aperte nel campo dei dialoghi ecumenico, interreligioso e con le varie culture”. Ha una valenza ecumenica la “spiritualità di comunione” presentata dal focolare? “La stanno a dimostrare, in particolare, due fatti: la partecipazione al movimento di cristiani di oltre 350 chiese e comunità ecclesiali da cui è nato qualcosa come un popolo cristiano, il quale, in attesa che si superino i problemi ancora pendenti, prepara le vie dell’unità; e l’esistenza ormai ventennale di incontri ecumenici di vescovi, la cui testimonianza di fraternità è sempre più recepita nelle diverse chiese. In ambedue i casi, la spiritualità di comunione, e specialmente quel suo cardine che è la presenza di Cristo fra coloro che sono uniti nel suo amore, si sono rivelati un potente cemento d’unione”. Quali cambiamenti porterà questa spiritualità nel rapporto della chiesa con la società secolarizzata occidentale, ma anche con gli altri mondi religiosi? “È un discorso vasto, peraltro ampiamente documentato da Città nuova. Il fatto è che una vera spiritualità di comunione non può non aprirsi ad un dialogo universale. Secondo la preghiera di Gesù per l’unità che è al cuore del carisma di Chiara Lubich, l’unità e la comunione hanno sempre una triplice dimensione: l’unione con Dio, la comunione vicendevole, l’unità di tutto il genere umano. Una volta partita dal cuore della Trinità, l’onda della comunione non si lascia confinare. Ma c’è ancora un’altra prospettiva: nell’era della globalizzazione, l’unità – e più esattamente un’unità che non annulli la ricchezza della molteplicità, ma anzi la promuova – è di vitale importanza per il cammino dell’umanità. Per questo, una spiritualità di comunione, che è in definitiva spiritualità trinitaria, spiritualità dell’uno- tre, dell’uno-molti, non può non avere un grande futuro”. UN SEGNO DEI TEMPI Tre domande all’arcivescovo di Praga, card. Miloslav Vlk. La sua esperienza nei paesi dell’Est europeo l’ha posta dinanzi alla concezione di unità del pensiero marxista. Lei aderisce a una spiritualità che parla anch’essa di unità, che vuole influenzare la società. Quali differenze trova tra i due tipi di unità? “Gli uomini della mia generazione, che da adulti hanno vissuto dall’inizio alla fine il periodo comunista, hanno conosciuto il suo regime, a volte pagandone le conseguenze sulla propria pelle, come crudele, ateo e totalitario. Un regime che non rispettava la dignità umana, la sua identità, non invitava all’iniziativa libera, alla collaborazione. Ogni decisione non la si discuteva, ma la si rispettava tacendo: si obbediva.Tale tacita obbedienza senza libera discussione, senza confronto delle opinioni, veniva chiamata “unità” dai comunisti. Su questo sfondo nero come la pece, nella chiesa abbiamo vissuto l’elezione di grandi papi e il Vaticano II, che ci hanno fatto intravedere un mondo totalmente diverso. “Piano piano, poi, la spiritualità dell’unità, portata dall’amore dello Spirito Santo, è penetrata anche nei nostri paesi dell’Est europeo. Essa coinvolgeva i nostri cuori, invitandoli ad aprirsi liberamente l’uno all’altro, secondo la propria identità, essendo l’immagine di Dio trino. Così, da Dio, nella collaborazione dell’uomo “divinizzato” dallo Spirito Santo, veniva fuori l’unità, qualcosa di divino-umano che portava come suo frutto Gesù Cristo risorto, salvatore del mondo. Le differenze tra le due concezioni dell’unità mi sembrano evidenti”. Un pastore d’anime, quale è lei, espressione della funzione di Pietro nella chiesa, come vede l’affermarsi di una spiritualità di comunione che da maggior peso ai laici e che sottolinea la funzione di Maria? “Nel Dna della chiesa, sin dalla sua fondazione, era scritta una parola: comunione. Israele era il “popolo di Dio”, formato dalle dodici tribù con Yhwh in mezzo a loro. In continuità con tutto ciò, Gesù ha fondato il nuovo Israele su “dodici” apostoli, essendo lui stesso in mezzo a loro. Può darsi che lungo i secoli non sempre sia venuto fuori chiaramente questo carattere della chiesa, di essere tutti uniti con Gesù risorto in mezzo alla comunità. Lo Spirito Santo, con la forza della sua azione, dal Vaticano II ha fatto emergere fortemente proprio questa caratteristica della chiesa nel mondo: i segni dei tempi spingevano allora in questa direzione. La dimensione carismatica della chiesa e il profilo mariano di essa, messo in luce dal papa attuale nell’epoca della nuova evangelizzazione, sono espressioni forti e chiare di ciò. Ecco il disegno di Gesù sulla chiesa d’oggi”. Può un vescovo aderire a una spiritualità particolare? Quali vantaggi gli possono venire da una tale scelta? “Ogni cristiano si può sentire attratto da una certa vocazione o da una data spiritualità. Può sceglierla e seguirla secondo la voce di Dio, dello Spirito Santo nel proprio cuore. È libero. Lo possono fare, ad esempio, anche le persone sposate, certamente con il rispetto degli obblighi precedenti, perché la scelta della spiritualità non può interferire con gli impegni del matrimonio.Anche un sacerdote o un vescovo, come cristiani debbono avere la stessa possibilità. La spiritualità scelta non deve interferire nel loro “destino” di padri di tutti, ma può approfondire e rafforzare la loro missione. Nella vita di un vescovo, per esempio, la scelta della spiritualità dell’unità rafforza in modo straordinario la sua missione e il suo carisma di essere costruttore dell’unità del popolo di Dio. I nuovi carismi e le nuove spiritualità sono “provvidenziali” per tutto il popolo di Dio, in mezzo al quale il vescovo ha il suo posto importante “.

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