Una lezione da via Quaranta

Le famiglie degli alunni di via Quaranta, a Milano, e soprattutto i dirigenti di quella scuola islamica irregolare costituiscono il segnale di una persistente contrarietà da parte dell’immigrazione a misurarsi con la cultura e con le regole del paese in cui hanno scelto di vivere, commenta sul quindicinale Rocca Fiorella Farinelli, docente di educazione all’università La Sapienza di Roma. Di religione islamica, in prevalenza egiziani, i 500 allievi delle classi elementari e medie inferiori della scuola islamica, situata nella periferia sud del capoluogo ambrosiano, sono vittime di una logica di chiusura rispetto ai circa 6 mila studenti di madre lingua araba, che frequentano le scuole italiane di Milano. Le polemiche, a via Quaranta, sono iniziate con il provvedimento dell’amministrazione comunale, che, in prossimità dell’apertura dell’anno scolastico, ha giudicato la scuola inagibile, a motivo delle gravi condizioni igienico-sanitarie. Immediata l’opposizione dei genitori degli studenti e le proteste, con i tentativi di fare lezione in strada, che hanno attirato giornalisti e telecamere, proteste della Lega e sostegno dalla sinistra. Eppure, questa scuola non è spuntata come un fungo. Esiste da 15 anni, sistemata in un fatiscente capannone industriale. E non era certo un mistero nemmeno che la scuola operasse al di fuori della legalità. Si sapeva del mancato rispetto delle condizioni indispensabili d’insegnamento, senza programmi svolti secondo l’ordinamento vigente, senza un indispensabile orientamento interculturale (con tanto di bilinguismo, e non solo arabo), senza un corpo di insegnanti in possesso della cittadinanza italiana (come prescrive la legge) e tutti dotati di adeguata formazione. Insomma, un’anomalia tollerata. Da tanti anni tutti sapevamo che questa scuola era in funzione – fa presente Annibale, pensionato, che da decenni abita vicino a via Quaranta -, ma negli abitanti della zona non ci sono mai state preoccupazioni. La scuola è sul confine del quartiere Corvetto, dove nutrita è la presenza di arabi e musulmani, che usufruiscono dei servizi offerti anche dalla parrocchia di san Michele e santa Rita, dove sono costanti gli sforzi per camminare verso una possibile integrazione. La scuola islamica, perciò, era da tempo un dato di fatto. Tanto che sono stati avviati negli scorsi anni esperimenti pilota per inserire un primo gruppo di studenti di via Quaranta nella scuola pubblica. La formula risultava un compromesso difficile ma lungimirante: classi omogenee e separate dalle altre, ma con insegnanti italiani e programmi scolastici regolari. Le polemiche bloccarono il tentativo. Adesso sulla vicenda sono intervenuti il ministro dell’Istruzione Moratti e quello dell’Interno Pisanu, dichiarando la loro contrarietà a scuole che isolino e la necessità di favorire l’integrazione dei bambini islamici nelle scuole statali. Una fermezza chiara ma assai tardiva, e non solo per il caso di via Quaranta, dato che solo ora hanno annunciato che sarà avviata una ricognizione sulle scuole senza riconoscimento legale. Per arrivare a prendere opportune decisioni ci sono voluti gli arresti di predicatori d’odio, potenziali reclutatori di kamikaze, e la scoperta di collegamenti con la rete del terrorismo fondamentalista. Vari esponenti del mondo musulmano hanno criticato tanta negligenza. Mario Scialoja, presidente della Lega musulmana mondiale in Italia: La scuola di via Quaranta andava chiusa molto prima, perché sottraeva 500 alunni alla scuola dell’obbligo, indipendentemente dai contenuti dell’insegnamento. In questo contesto, si è mossa anche la procura di Milano, che ha ipotizzato a carico dei genitori degli studenti della scuola islamica non autorizzata il reato di mancato rispetto dell’obbligo scolastico. La pena – un’ammenda di trenta euro – indica che il reato è considerato lieve, ma le ripercussioni, in questo caso, sarebbero pesanti sul fronte più temuto da quelle famiglie, ovvero il permesso di soggiorno, la possibilità di risiedere regolarmente a Milano. La morte di un allievo undicenne, investito nei pressi della scuola dopo una manifestazione, ha accresciuto la tensione. Il gruppo di famiglie islamiche più irriducibili, una trentina su duecento, continuano a chiedere la riapertura della scuola o la concessione di un altro edificio da parte del comune. Il sindaco Albertini ha aperto alla possibilità di una scuola paritaria: È giusto che ai genitori che ne hanno fatto richiesta sia data un’alternativa alla scuola statale. Di diverso avviso, prefetto, provveditore e direttore scolastico regionale, che hanno proposto alle famiglie due opportunità: l’inserimento nelle scuole statali della zona e corsi suppletivi di lingua araba, o l’istruzione paterna, l’insegnamento cioè in famiglia (ed esame a fine anno in un istituto pubblico) con un progetto approvato dalle autorità italiane. Gli ultimi sviluppi registrano due episodi contrastanti: sette famiglie musulmane hanno rispedito i loro figli a studiare in Egitto, mentre altre trenta hanno scelto la strada dell’integrazione, decidendo di iscrivere i ragazzi nelle scuole pubbliche. La vicenda rivela purtroppo l’insufficiente impegno di controllo circa il rispetto delle leggi e l’approssimazione dei processi d’integrazione del nostro paese. Commenta in modo netto sul Corriere della Sera il solitamente equilibrato Magdi Allam, esperto di questioni arabe: Finiamola con la minaccia di trasferire i figli in Egitto. Si tratta di un inaccettabile ricatto nei confronti dell’Italia. Chi vuole vivere in Italia nel rispetto della legge è il benvenuto. Chi invece spera, confidando nella manifesta ambiguità delle istituzioni, di perpetuare la violazione della legge, è bene che se ne vada in Egitto. L’algerino Khaled Fouad Allam, docente di sociologia del mondo musulmano a Trieste aggiunge: Nella vicenda della scuola di via Quaranta non è racchiusa soltanto la questione dell’educazione dei figli, ma anche di quella dei genitori: perché questi ultimi debbono crescere e imparare a non avere paura dell’Occidente e di un Islam che si occidentalizzerà. Nel 1995 erano presenti nelle scuole italiane 50 mila alunni stranieri, a settembre 2005 la stima è di 420 mila. I numeri invitano ad affrontare in modo adeguato la sfida dell’inserimento. In un progetto unitario e condiviso di società pluralista, la scuola costituisce un elemento fondamentale. La vicenda di via Quaranta serva da monito e da pungolo. UN SUSSULTO DI CONSAPEVOLEZZA Prof. Paolo Branca, quale esito auspica agli studenti di via Quaranta? L’inserimento nelle scuole italiane della zona, perché a via Quaranta hanno fatto esclusivamente un programma arabo, che condannava gli alunni a non poter continuare gli studi qui ed essere degli emarginati, risponde il docente di lingua araba all’università Cattolica di Milano ed esperto del mondo musulmano. Non la sento convinta… Temo il solito pasticcio all’italiana. I musulmani hanno trovato appoggi politici – siamo in campagna elettorale – e ho paura che alla fine riusciranno a tenere in piedi una specie di scuola paterna, con molti bambini La vicenda poteva essere risolta prima, attraverso tentativi poi falliti per la chiusura delle famiglie degli studenti, particolarmente chiuse, e l’inerzia delle istituzioni. Quale lezione trarre dalla vicenda? Ne deduco che siamo una democrazia debole, che non sa prendere iniziative. Di fronte ad un legittimo desiderio di mantenere le proprie radici, abbiamo lasciato per 15 anni una situazione fuori controllo, di cui i bambini hanno pagato il prezzo. Peccato che, rispetto a quello che potremmo offrire, restiamo sempre alla logica dell’emergenza, con iniziative di scarsa qualità.Tutte le istituzioni fanno una gran fatica a stare dietro ad una realtà in rapida trasformazione e manca un progetto globale. C’è bisogno di un sussulto di consapevolezza. La presenza islamica, se gestita e non subita, può invece essere un’occasione per ripensare a noi stessi, alla nostra identità, alle nostre radici in modo dialogico e stimolante. Vede qualche prospettiva interessante? Tra gruppi di persone serie sta passando una maturazione, lenta come è inevitabile che sia, che fa ben sperare. È una cosa da carbonari rispetto a quanto ci sarebbe bisogno, ma c’è PROGETTI CHIARI DI CONVIVENZA La delicata questione intorno alla scuola di via Quaranta evidenzia l’urgenza di affrontare in modo deciso e intelligente le sfide provenienti dalla nostra società multiculturale. È necessario governare i fenomeni migratori avendo un chiaro progetto di convivenza civile, avverte Giuseppe Milan, docente di pedagogia interculturale all’università di Padova. Quali rischi stiamo correndo? Quelli di imboccare due strade contrapposte e sbagliate: quella dell’assimilazione- fusione nella cultura dominante e quella della formazione di isole chiuse. Nessuna diversità è ammessaa nella logica dell’assimilazione? Non è ammessa. L’immigrato deve lasciarsi assorbire dalla cultura dominante. Questo può avvenire se la cultura del paese ospitante non tollera la diversità, o se è fragile l’identità culturale di molti immigrati, sedotti dai miti del nostro benessere e dai modelli televisivi. Quale alternativa offrire? La più facile è, appunto, la frammentazione, per cui la cultura dell’altro viene (almeno esplicitamente) rispettata nella sua diversità, ma viene recintata, come cultura separata e non comunicante. Questa strategia sembra rispettare l’idea-chiave del pluralismo. In realtà, si tratta di apartheid culturale. A volte, è proprio il gruppo immigrato a porsi come isola separata, al di fuori delle regole sociali. Come procedere, allora? È urgente percorrere una terza via, evidentemente più difficile ed esigente: progettare, condividere e realizzare l’integrazione interculturale. L’interculturalità implica una marcia di avvicinamento, uno riconoscimento, un processo condiviso e reciproco nel rispetto di una comune appartenenza. Appartenenza alla fraternità che ci lega, vista come principio costitutivo del nostro essere e come finalità cui tendere insieme. Né chiusura, né ospitalità fragile. Certo. Ospitalità non significa banale assistenzialismo o allentamento delle regole che rispettano dei principi e corrispondono ad un progetto di convivenza democratica. Da qui la necessità sia di incrementare il dialogo e la conoscenza reciproca, sia far comprendere che l’integrazione interculturale non calpesta le identità culturali, ma le valorizza mettendole in rapporto

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