Un lavoro degno, uscire dalla precarietà è possibile

Intervista al gruppo di Kritica economica, studenti e giovani ricercatori di scuola keynesiana, sulle conseguenze delle politiche del lavoro indotte dalla visione liberista finora prevalente. Gli investimenti e le direttive necessarie per cambiare sistema
Lavoro precario Foto LaPresse - Mourad Balti Touati

Lavoro e giovani. Una strada possibile di uscita dalla crisi in Italia passa dal superamento delle piaghe dell’alto tasso di disoccupazione e dell’ inoccupazione giovanile.  In un percorso di inchiesta sul lavoro è interessante conoscere la prospettiva di Kritica economica, un gruppo di lavoro costituito da studenti e ricercatori che si riconoscono nella lezione dell’economista John Maynard Keynes. Alle domande dell’intervista hanno risposto Alessandro Bonetti, Riccardo D’Orsi, Andrea Maioli e Andrea Muratore.

 Cosa è che non funziona nell’Italia dell’alto livello di disoccupazione?
Il problema della disoccupazione giovanile è multidimensionale, e non è dunque spiegabile da una sola causa. Il punto di partenza è da rintracciarsi nel declino economico italiano, testimoniato dall’andamento del PIL pro-capite e della produttività negli ultimi 30 anni, ma soprattutto, nell’andamento della distribuzione del prodotto sociale.

Dall’inizio degli anni ‘90, il nostro Paese ha infatti avviato una stagione di profonda ristrutturazione economica che ha impattato sulla sua capacità produttiva aggregata, ma soprattutto sulla distribuzione del reddito. Se è vero che da quegli anni la “torta” è aumentata di grandezza molto lentamente, è soprattutto vero che essa ha cominciato ad essere distribuita in modo molto più diseguale di quanto avvenisse in passato tra salariati e datori di lavoro a vantaggio dei secondi. La causa di ciò è da ricercarsi nell’adozione di un’impostazione ordoliberista alle questioni economiche, culminata nell’adesione alla moneta unica, e nell’insistente ricerca di un “vincolo esterno” per sterilizzare il conflitto sociale a favore della classe capitalistica dietro un velo di presunta neutralità della politica economica. L’idea di fondo è stata quella della trickle down economics: detassando l’impresa e flessibilizzando il lavoro si sarebbe ridotto il numero di disoccupati, e dunque il sistema economico nel suo complesso ne avrebbe beneficiato.

E cosa è accaduto in realtà?
Il risultato è stato che un numero sempre più alto di lavoratori ha cominciato a competere per quote sempre minori di prodotto sociale sullo sfondo di un progressivo accentramento del potere contrattuale nelle mani del datore di lavoro, spingendo al ribasso salari e tutele sul lavoro. Nel complesso, il processo ha finito per danneggiare in particolare il la forza lavoro giovanile in ingresso, poiché scarsamente rodata all’interno dei meccanismi d’impresa, e dunque anello più debole in un sistema in cui il prodotto sociale cresce lentamente e il potere di contrattazione salariale è ai minimi storici.

Quali politiche attive sarebbero necessarie?
Per superare l’attuale stallo economico è fondamentale un intervento pubblico per stimolare la produzione di reddito e la creazione di posti di lavoro. Lo strumento principe, da questo punto di vista, dovrebbero essere gli investimenti pubblici in infrastrutture ad alta necessità di manodopera come motore di sviluppo economico e di produzione di posti di lavoro.

Viste le dinamiche di cui sopra, tali misure consentirebbero di impattare positivamente sulla domanda aggregata, riflettendosi positivamente sulla crescita della produttività, e rompendo dunque la spirale depressiva alla quale è andata incontro il nostro paese negli ultimi decenni.

Questo vuol dire anche assunzioni nel settore pubblico?
Va di pari passo che lo Stato dovrebbe farsi carico di un massiccio programma di assunzioni nel pubblico (istruzione, amministrazione, sanità, servizi sociali), fortemente sottodimensionato rispetto alla media europea (a scapito di quanto spesso sostenuto): le statistiche internazionali ci dicono che servirebbero 2 milioni di assunzioni per adeguarsi alla media europea. Una tale misura deve essere affiancata ad una ristrutturazione ed efficientamento della macchina pubblica, con una complementare ridefinizione dei ruoli.

Esistono, a vostro parere, degli esempi di altri Paesi replicabili da noi?
Domanda interessante e complessa al tempo stesso. Sulla carta le politiche del lavoro competono alla sfera della negoziazione su scala nazionale tra partiti, autorità e forze sociali ed economiche, nella realtà dei fatti sono estremamente condizionate dai paradigmi dominanti su scala internazionale e dalle dinamiche della competizione globale sul piano industriale, commerciale e produttivo. Più che a singoli Paesi dobbiamo pensare al fatto che l’Italia si muove in un preciso paradigma di riferimento a livello europeo.

E quale sarebbe tale paradigma di riferimento?
In questi decenni di corsa al ribasso dei diritti sociali ed economici dei lavoratori, nell’Europa continentale le tendenze alla precarizzazione e all’inseguimento dei Paesi in via di sviluppo sul terreno dei vantaggi competitivi legati al costo del lavoro hanno avuto uno sviluppo diverso rispetto ai Paesi del mondo anglosassone. Se da un lato la globalizzazione ha posto in contrasto competizione e sicurezza del lavoro, dall’altro in Europa siamo arrivati alla definizione del paradigma della “sicurezza flessibile” (flexicurity) come principale punto di riferimento. In questo contesto, la flexicurity cerca proprio di conciliare queste due fattispecie, che in effetti sembrano in contrasto tra loro. L’approccio in questione ha cercato di creare in tutta Europa un mercato del lavoro più flessibile garantendo al tempo stesso una adeguata protezione sociale, accompagnata da politiche attive del mercato del lavoro nei Paesi membri.

Quale giudizio date di tale approccio?
L’approccio in diversi contesti è stato tutto fuorché soddisfacente: dalle riforme Hartz in Germania al Jobs Act italiano, passando per la Loi Travail francese, tutti i processi posti in essere in questo senso hanno pensato più alla flessibilità che alla sicurezza, portando di fatto alla polarizzazione del mercato del lavoro tra fasce garantite e fasce abbandonate alla competizione al ribasso su salari e prospettive.

Cosa si può fare, quindi in questo contesto?
Realisticamente, nei quadri d’azione e di competizione oggi consentiti, è doveroso poter sanare le contraddizioni più estreme: misure come il Decreto Dignità italiano insegnano che, anche su piccola scala, è possibile invertire la marea della corsa alla flessibilizzazione dei contratti. Misure come i sussidi di disoccupazione e il reddito di cittadinanza andrebbero seriamente implementate in maniera organica, ma anche riorientate, affiancando al necessario ristoro anti-povertà un processo di riqualificazione delle competenze e delle prospettive future del cittadino che li riceve.

In una prospettiva più ampia, è doveroso rimettere il lavoro al centro del processo produttivo, rafforzare le tutele per la sicurezza e invertire le logiche della precarizzazione: ma questo impone serie riflessioni a tutto campo su questioni che vanno dalla politica industriale e strategica alla formazione dei dipendenti, passando per un serio ragionamento sul futuro rapporto tra istruzione e lavoro, come precedentemente affermato.

Cosa ne pensare del sistema delle agenzie interinali?
Il ricorso al lavoro somministrato è una delle peggiori storture del nostro mercato del lavoro. Gli ambiti in cui un lavoratore assunto tramite agenzia è penalizzato rispetto ad un suo collega assunto dall’azienda sono numerosi. Sebbene la legge e il Contratto Collettivo Nazionale delle Agenzie per il lavoro abbiano introdotto il principio della parità retributiva, questo principio è spesso disapplicato. Un lavoratore assunto tramite Agenzia mediamente viene assunto per delle posizioni per le quali è sovra-qualificato, spesso con contratti a tempo determinato, non gode di scatti di anzianità oltre a condizioni peggiorative su diritti e tutele.

Che tipo di condizioni peggiori?
Dovendosi interfacciare con due realtà differenti (il somministratore, ossia l’Agenzia per il lavoro, e l’utilizzatore, ossia il datore di lavoro) al lavoratore somministrato risulta esponenzialmente più difficile far valere i propri diritti. Questa triangolazione tra lavoratore, somministratore e utilizzatore, crea un sistema opaco che penalizza il lavoratore che (come i termini utilizzati rivelano) è visto come un bene da scambiare.

Se il lavoro somministrato ha subito numerose critiche soprattutto nell’ambito della logistica, non si può dimenticare, però, che anche nel settore pubblico si ricorre con sempre maggiore frequenza ai servizi delle Agenzie per il lavoro. Esempio eclatante sono i molti operatori sanitari assunti tramite Agenzia per far fronte all’emergenza Covid. L’involuto sistema appena descritto ha fatto sì, come denunciato dai sindacati, che a questi lavoratori non fosse garantita la parità di diritti con i propri colleghi, non vedendosi riconosciute indennità e maggiorazioni corrisposte dalla Regione alla categoria.

Questo sistema penalizza il lavoratore non solo in termini di diritti e tutela, ma crea anche una spaccatura sempre più profonda tra i lavoratori, una tensione competitiva costante, indebolendo di fatto l’intera classe lavoratrice.

 

Nel focus tutti gli interventi dell’inchiesta sul lavoro.

Nel numero di Febbraio 2021 di Città Nuova una lunga inchiesta di analisi e proposte sulla disoccupazione giovanile.

 

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