Talenti dalla Russia . Il pipistrello

Roma, Teatro dell’Opera. Scenografia luccicante (Maurizio Varamo), costumi rutilanti (Anna Biagiotti)), regia frizzante (Filippo Crivelli) per l’operetta di Johann Strauss, ahimè, ormai così lontana da noi da apparire il sogno impossibile e surreale di scorrere la vita come una danza. Eppure, oltre la favoletta degli equivoci amorosi fra le coppie frivole sino all’inevitabile riconciliazione finale, la musica spumeggiante di Strauss trascina ancora, portando un’aria disincantata senza essere amara, disimpegnata senza esser cinica, lungo i tre atti; obliando il dolore nell’immenso ballabile del secondo atto – una apoteosi della danza -, con una orchestra il cui ritmo scorre sull’anima, senza bruciarla, perché la vita può viaggiare sulle ali del sogno, secondo Strauss. La direzione colorata di Donato Renzetti, le interpretazioni scaltrite di Darina Takova (Rosalinde), Francesco Grollo (un Alfred promettente), l’Eisenstein di Stefano Antonucci e il bravo Dario Solari (Falke) hanno sostenuto bene lo spettacolo, insieme al corpo di ballo del Teatro con l’étoile Mario Marozzi insieme all’impavida Carla Fracci e ad un Massimo Dapporto in vena nel ruolo comicheggiante di Frosch. Pubblico divertito, festa assicurata. La festa russa continua Roma, Accademia Nazionale Santa Cecilia. Come accarezza lui la tastiera, avviando il Quarto Concerto per piano e orchestra di Beethoven, ha già del miracolo. Ne esce un suono morbido e denso che non abbandona mai. Evgenij Kissin ama gli indugi più timidi, più che gli scatenamenti o le grandiosità (in cui peraltro eccelle), segno di un carattere introverso e riservato, quasi mistico. Kissin scava nella musica, non ci ricama sopra, non indulge agli effetti (basta sentirlo nel Concerto Imperatore la stessa serata). Il direttore inglese Jan Latham-Koenig lo accompagna educatamente, con un’orchestra ammirata. Perché Kissin, moscovita, 33 anni, pur trasferito negli Usa e in giro per il mondo, ha mantenuto un’infanzia spirituale che gli permette di far di ogni concerto un evento, di dire cose nuove suonando brani notissimi. Perciò il pubblico sprofonda in un silenzio raro e lo ama con esplosioni di applausi. Sente in lui, nel suo modo di far musica, l’eco di qualcosa che viene da insondabili lontananze, che egli capta e comunica. Ma la madre Russia esporta altri talenti. Vladimir Jurowski è un giovane zazzeruto e diritto, un altro moscovita che dirige con calma fermezza, frenando il suo fuoco e lasciandolo esplodere al momento opportuno, senza indecisioni. Così il suo C? aikovskij è nella Sinfonia Patetica l’uomo che non sa nascondere il dramma personale dietro i l sorriso mondano: Jurowskii scatena l’orchestra in impennate dolorosissime. Quando poi, insieme a Leonidas Kavakos, si affronta il Concerto in re magg., tocca al violinista estrarre il lato spericolato – non solo tecnicamente – del compositore: razzi di luce, onde sensuali irradiano dal suo Stradivari 1692 con potenza ed acutezza. C’è anche spettacolo virtuoso in Kavakos, come c’è in C?aikovskij. Il pubblico scatta in ovazioni

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