Sul lago dorato si ripescano i sentimenti

Siamo in una sala cinematografica al centro di Roma: le otto di sera, lunedì. Proiettano Sul lago dorato. Le poltroncine sono quasi tutte occupate sin dall’inizio della proiezione. Questo non meraviglierebbe poi tanto. Gli attori principali, infatti, hanno appena ottenuto l’Oscar per avere interpretato la parte dei due vecchi sposi: Ethel e Norman. Da soli fanno spettacolo. Ma è piuttosto la reazione del pubblico – moltissimi gli anziani, moltissimi i giovani – che genera un po’ di sorpresa. Perché si tratta di una reazione al contenuto della pellicola, al messaggio, se vogliamo usare una parola grossa. Mormorii di partecipazione, risatine ai punti voluti, silenzi tesi nei momenti chiave, commozione contenuta, forse qualche lacrima dicono chiaramente che la sensibilità è toccata. E poi ci sono i tramonti – dorati appunto – il magnifico paesaggio lacustre, le panoramiche di fiori smaglianti, la vegetazione, gli uccelli acquatici, offerti con l’insistenza, la perfezione e la ricercatezza di un documentario di scienze naturali. Il tutto crea un’atmosfera romantica, che fa da dolce avvincente sfondo alla vicenda, anzi talvolta finisce coll’intessere un discorso a parte un tantino retorico, diremmo quasi stucchevole, che invita però lo spettatore ad accogliere il gioco dei sentimenti, vera sostanza del film. È a questo punto che inizia il dipanarsi delle nostre riflessioni. Ci sembra infatti che oggi il sentimento venga riproposto sempre più spesso come ingrediente di prima importanza nella vita umana. Di più: il pubblico, anche quello giovane – questo è interessante – reagisce bene. Come se in fondo desiderasse nutrirsi proprio di questo. Ma veniamo al film in questione. Apparentemente la storia di questa vacanza sul lago è molto semplice. Ma l’autore, con uno studio psicologico piuttosto ambizioso e, giocoforza, abbastanza superficiale, si addentra in un fitto intreccio di rapporti e problematiche. La trama è tessuta con troppi fili: ognuno andrebbe tirato e seguito da solo, senza per di più la distrazione continua della tavolozza dei colori sullo sfondo. Ci sembra tuttavia che la scelta dei temi, il tentato recupero di certi valori, insista nel suggerire qualcosa, offrendo spunti per tastare un po’ il polso, in quanto a gusti ed esigenze, a questa nostra società degli anni Ottanta. Tra l’altro non si tratta di un fatto isolato. Stimoli dello stesso tipo ci sono venuti da altri recenti film, romanzi e saggi vari. Ecco – a lampi – le linee-forza della pellicola. Il tema della morte, mistero enorme che spaurisce ed affascina, aleggia dalle prime alle ultimissime battute. La bellezza, la ricchezza di uno stabile rapporto coniugale, rappresentato dai due vecchi, sono sottolineate continuamente, in contrasto con la variabilità sentimentale della figlia. Sono tornato di corsa qui – dice pressappoco il vecchio Norman alla moglie, dopo aver avuto l’angosciosa sensazione di essersi smarrito nel bosco privo di identità e di memoria – perché sapevo che solo tu mi avresti ridato la sicurezza, mi avresti permesso di essere di nuovo me stesso . Il riavvicinarsi delle generazioni fa capolino dapprima timido, poi prepotente: alla divaricazione degli anni Sessanta si propone un nuovo, più maturo e cosciente incontro fra le persone di varie età accompagnato, nello sforzo di capirsi, dalla stupefatta scoperta dei reciproci insospettati valori. E di ritorno si può chiaramente parlare anche per ciò che riguarda la figura del padre, di cui la società, dopo averne voluta la morte, dichiara di sentire l’esigenza. Ci azzardiamo infine a cogliere a volo il riaffacciarsi di un certo modulo femminile. Dal film ci pare emerga una donna centro e sostegno della vita familiare, pilota intelligente, anche se spesso in maniera nascosta, dei rapporti; punto di convergenza e mediazione fra marito, figli, amici. Persino la figlia di Norman, che il rapporto sbagliato col padre ha reso insicura ed instabile, nei confronti del proprio compagno rappresenta un segno di sicurezza e di forza.

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