Sud Sudan, il difficile cammino di pace

Non si riesce a formare un governo in uno dei Paesi più travagliati dell’Africa. La mediazione dell’Uganda riesce solo a trovare l’accordo su un nuovo rinvio.

La scadenza per la formazione di un governo di unità nel Sud Sudan – come prevedeva il secondo accordo di pace firmato degli ultimi quattro anni – è stata rinviata di cento giorni ulteriori, dopo una lunga serie di colloqui avvenuti con la mediazione dell’Uganda. Un nuovo governo di unità avrebbe dovuto essere formato entro il 12 novembre, mettendo assieme l’attuale governo guidato dal presidente Salva Kiir, il principale movimento di opposizione guidato da Riek Machar, presentito come primo vice-presidente, e da altri gruppi più o meno armati, più o meno clandestini, più o meno radicati nel territorio, più o meno espressione di etnie in lotta tra loro dopo il distacco dal Sudan. L’indipendenza, raggiunta solo nel 2011, fa del Sud Sudan, o Sudan del Sud, il Paese più giovane del pianeta.

L’incontro tra Kiir e Machar che hanno portato alla decisione dilatoria è avvenuto in un clima assai teso, e alla fine tutte le parti hanno concordato il ritardo. Gli ostacoli alla formazione di un governo di unità nazionale sono sostanzialmente tre: l’integrazione delle “forze di sicurezza” nell’esercito ufficiale del Paese, manovra che risulta necessaria per evitare in futuro nuove guerre civili; gli accordi sulla sicurezza nella capitale Juba, dove le diverse etnie si incrociano e dove la tensione può esplodere da un momento all’altro, perché le varie milizie hanno ancora nascosti arsenali non di poco conto; il processo politicamente assai complicato di determinare i confini interni delle varie regioni dello Stato, che in realtà dovrebbero sancire un accordo federale tra territori legati alle diverse etnie. Se questi tre problemi non verranno risolti, si rischia di assistere a una recrudescenza, anzi a una nuova, vera esplosione degli scontri interni al Paese, con una guerra civile che molti ancora ritengono l’unico modo di risolvere la questione etnica del Sud Sudan. Il fantasma della ripetizione delle esplosioni di violenza del 2013 e del 2016 è più che mai vivo.

L’accordo di pace firmato nel settembre 2018 era stato il risultato della mediazione della “troika” di mediazione, Norvegia, Stati Uniti e Regno Unito, anche se non pochi sostenevano allora che tali accordi erano «non realistici o sostenibili». Ma, almeno, quell’accordo era servito per far cessare le violenze di una guerra civile che si stima abbia causato quasi 400 mila morti. Un governo di unità nazionale sarebbe il terzo tentativo di Kiir e Machar di condividere il potere al vertice del governo del Sud Sudan. Dopo l’indipendenza il primo assunse la presidenza, avendo precedentemente ricoperto la carica di presidente del governo semi-autonomo del Sud Sudan. Machar, che si era separato da Kiir ancora negli anni Novanta, era stato il suo vice presidente fino alla metà del 2013. Nel dicembre 2013 uno scontro tra soldati fedeli a Kiir e quelli fedeli a Machar portò ad attacchi al gruppo etnico di Machar, i nuer. Nell’agosto 2015 era stato firmato l’accordo sulla risoluzione del conflitto nel Sud Sudan, che consentiva a Machar di tornare a Giuba al suo posto di primo vicepresidente. Machar tornò in realtà solo nell’aprile del 2016. Ma nel luglio dello stesso anno, le forze di Kiir e Machar si scontrarono di nuovo in città, e di nuovo Machar fuggì.

Tutto ciò ha causato enormi sofferenze al giovane Paese e soprattutto alle sue popolazioni più povere. Attualmente il Paese vive solamente grazie all’enorme dispiegamento di forze umanitarie, private e pubbliche, che finora hanno inviato diversi miliardi di dollari di aiuto alle popolazioni più povere. Ma ciò ha creato nella gente uno stile di vita passivo, anche perché molti profughi interni hanno perso il loro lavoro e le terre, peraltro fertili, giacciono spesso abbandonate. A ciò si aggiungono i cambiamenti climatici che, riducendo la durata e mutando le modalità delle precipitazioni della stagione delle piogge, causano inondazioni e siccità alternate. Nemmeno l’intervento del papa, che invitò a Roma i principali esponenti politici del Paese nell’aprile scorso chiedendo loro di impegnarsi per la pace e arrivando a inginocchiandosi dinanzi a loro per supplicarli di servire il popolo e non gli interessi parziali, sembra avere avuto effetto. Ma, almeno, gli scontri armati non sono ripresi.

 

 

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