Siria ancora cristiana

La Siria è da tempo al centro dell’attenzione internazionale: prima il cambio della guardia al vertice dello stato tra padre e figlio, poi le denunce sul fiancheggiamento ai terroristi iracheni, e ancora la triste vicenda dell’assassinio di Hariri a Beirut e del ritorno delle truppe dal Libano… Non passa settimana senza che il paese salga al proscenio con le sue contraddizioni. Eppure nessuno osa immaginare un vicino oriente senza la Siria. Pochi tuttavia conoscono una delle sue ricchezze più antiche, la presenza dei cristiani e della loro cultura. Oggi sono poco più dell’8-10 per cento della popolazione, quasi due milioni su 19 milioni, ma non conoscono la rassegnazione; sono siriani-cristiani, in un paese che ospitò alcune tra le più vivaci comunità della chiesa sin dal primo secolo. I ritratti del presidente Tre volte negli Atti degli apostoli è riportato il racconto della conversione di Paolo sulla strada di Damasco . Quella strada che sto ripercorrendo ora. All’avvicinarsi della capitale aumentano i ritratti del presidente Bachar al-Assad e di suo padre Hafez. La città appare trascurata: case dagli intonaci cadenti, fili elettrici e tubi aggrovigliati all’inverosimile, caligine diffusa, condizionatori e paraboliche ovunque. Il clacson è monarca assoluto. Le nuvole coprono la città, i venti spirano dalla montagna del Libano, portano con sé la pioggia. Ma Damasco è anche altro. Passeggiare nella città vecchia, quasi interamente circondata da mura a cui si accede attraverso le bab, le porte, è un viaggio nella storia millenaria che ha fatto di questa città la capitale più antica al mondo. Si risale fino agli egizi, che non ignoravano il nome di Dimashqa, luogo mitico strappato al deserto grazie al fiume Barada. Damasco non ha mai smesso di essere capitale, sovrapponendo perciò le epoche pietra su pietra. Navigando tra i suq dove fanno capolino qua e là le curate edicole mariane, arrivo alla Sharia bab Sharqi, la lunga strada che attraversa da sud a nord tutta la città vecchia. Dicono che su questa via Paolo di Tarso cadde da cavallo. Anche allora la città era un dedalo di viuzze; anche allora rarissimi erano i muri perpendicolari al suolo; anche allora ogni casa si apriva in un cortile dove zampillava l’acqua dalla fontana e il cedro cresceva tra rose e gelsomino. Rivedo l’apostolo dei gentili passeggiare in questo dedalo, e mi dico che non a caso la più grande epopea missionaria della storia nacque proprio qui, in una città dove convivevano e convivono da sempre religioni e culture diverse: oggi si contano ebrei, cristiani, musulmani, zoroastriani… Nella casa di Anania, dove Paolo sarebbe stato accolto, un francescano mi dice severo e orgoglioso: Qui è maturata una delle maggiori conversioni della storia del cristianesimo, che ha resistito venti secoli. Quanti possono vantare un tale record?. Sufanieh Dietro Bab Touma ecco un luogo che tanta gente considera solo commerciale, ma che per tanti altri – tra cui vescovi, nunzi e cardinali – è invece la casa da cui la Vergine indirizza un messaggio di pace e coraggio ai cristiani della regione. Qui si esprime la Vergine dell’olio. Olio di oliva. La casa è quanto di più normale e modesto si possa immaginare. Il cortile è ricoperto con un lucernario per ospitare l’icona della Madonna che trasuda olio. Dimensioni: otto centimetri su sei. Inserita in una sfera di plexiglass, con alla base una coppa per raccogliere il liquido, ne stilla più o meno un centilitro alla settimana. È la riproduzione della Vergine di Kazan, è ogni giorno oggetto della devozione di centinaia di persone, talvolta migliaia. È lì dal 1982, cioè da 23 anni, il che non è poco per una donna come Myrna Nazzour che non coltivava particolari vene mistiche. Un avviso dice che non sono accettate offerte. Nel cortile incontro la donna che mi viene incontro assieme al marito, vestita di nero. Ha profonde occhiaie. Chi è Maria? È la mamma, è tutto per me. Mi ha mandato vari messaggi, non uno solo: amare, perdonare, pregare, pentirsi. Dopo le prime apparizioni, dei sacerdoti mi avevano consigliato di ritirarmi in convento, ma la Madonna mi ha detto: Resta con tuo marito, ti farò un regalo. Quattro anni più tardi è nata la mia prima figlia, io che ormai credevo di essere sterile. Chi viene in pellegrinaggio? Cristiani e musulmani. La Signora nella prima apparizione mi aveva detto di aprire le porte, di non respingere nessuno. Com’è cominciato il fenomeno? Il 22 novembre del 1982 le mie mani hanno cominciato a sudare olio. Una settimana dopo anche la piccola icona ha iniziato a stillarlo. La prima apparizione, invece, è avvenuta il 15 dicembre di quell’anno. Sono fuggita, avevo paura, non volevo guardarla. Quale l’ultimo messaggio? Non lasciatevi prendere dalla paura: custodite le vostre tradizioni orientali e la preghiera per la pace. Perché l’olio? Non lo so. È un simbolo di vita, luce e pace. Il vescovo del crocevia A metà strada tra Damasco e Aleppo, Homs dell’antico splendore ha conservato ben poco, pur essendo il principale crocevia del paese. Qui incontro Abraham Nehmé, arcivescovo greco-melchita, cattolico quindi, in una città dove convivono cristiani di rito greco, siriano, maronita e latino. Qui l’ecumenismo non è un optional, ma una necessità. Ci riuniamo mensilmente tra pastori – esordisce – e spesso redigiamo lettere pastorali comuni, e alle autorità parliamo d’una sola voce. Si considerano fratelli. Ecumenismo tra cristiani, dialogo coi musulmani. E non potrebbe essere altrimenti: Abbiamo ottime relazioni tra responsabili delle comunità cristiane e capi musulmani: siamo sempre presenti alle rispettive feste religiose. Il governo incoraggia la concordia, in uno spirito di fratellanza che, per evitare diatribe, preferisce lasciar fuori dalla porta le discussioni teologiche. Un dialogo della vita, dunque, un riconoscerci vicini, amici e fratelli, figli del Dio unico. Per mons. Nehmé, la visita del papa a Damasco nel maggio 2001 ha avuto l’effetto di una bomba fra gli stessi cristiani di Siria, stimolandoli, cattolici e no, a prendere più coscienza dei tesori del cristianesimo in questa terra. Ha valorizzato questa minoranza nel pluralismo di culture e di civiltà della Siria odierna. In calo per motivi demografici e di emigrazione, qui i cristiani hanno un loro peso sociale, nonostante le diversità. L’ortodossia – mi spiega mons. Nehmé – è rappresentata dalle Chiese ortodosse greca, armena e siriaca. Tra le comunità cattoliche, la maggiore è quella dei cattolici greci, o melchiti (traduzione araba del greco basileus, cioè imperiale). Ci sono poi cattolici armeni, cristiani maroniti, cattolici romani e cattolici caldei. I siro-ortodossi di Aleppo Proseguo verso il nord, verso Aleppo, perla di tradizione e di archeologia, tre milioni di abitanti per una indomita voglia di commerciare di tutto e con tutti. Gregorios Yohanna Ibrahim è arcivescovo locale della chiesa siro-ortodossa di Antiochia, una comunità antichissima, sparsa in tutto il mondo, nonostante non raggiunga che alcuni milioni di fedeli. Una minoranza della minoranza? Non voglio usare questa terminologia, che ci fa sembrare stranieri. Tutti sanno che l’Islam è arrivato da queste parti dopo il cristianesimo! Oggi, inutile negarlo, la situazione è molto complicata, per tutti i cristiani, che mi sembrano suddividersi in due gruppi: uno che non ha fiducia nell’Islam, che ha paura, che parla di persecuzione. L’altro crede invece che l’Islam non sia così pericoloso. Qui in Siria possiamo portare esempi di eguaglianza tra chiesa e moschea, grazie, tra l’altro, alle norme costituzionali. È per questo che si parla tanto di dialogo della vita, dialogo del lavoro, delle esperienze. Che impatto ha avuto la visita del papa Giovanni Paolo II? Ha allargato la visione del dialogo islamo-cristiano, perché già due mesi prima tutti i media hanno cominciato a parlare della storia cristiana della Siria, di monasteri, di diocesi e vescovi, del Crisostomo e del Damasceno. Per la prima volta i musulmani conoscevano la vera storia dei cristiani in Siria. Parliamo dei rapporti ecumenici. Da trent’anni in qua tante cose sono cambiate, perché i fedeli di tutte le tradizioni cristiane sono andati avanti, costruendo ponti tra i singoli e tra le famiglie, prima ancora che i leader lo facessero. Certamente ci sono dei fanatici, dei fondamentalisti cristiani. Ma secondo me la maggior parte crede che l’ecumenismo sia una benedizione. Ad esempio, ad Aleppo esistono undici chiese: sei cattoliche, tre ortodosse, due evangeliche. Lavoriamo insieme da parecchi anni. Nel 2001 abbiamo potuto organizzare un festival per la chie- sa di San Simeone, una cattedrale abbandonata fuori della città. Ci siamo ritrovati in 7 mila persone, e per la prima volta abbiamo potuto pregare insieme secondo le diverse lingue e liturgie. I presenti hanno avuto l’impressione di appartenere a una chiesa unita. Mar Mousa Ritorno verso Damasco. Ecco il deserto, insospettabile moltiplicatore di tempo e distanze. A Mar Mousa è di pietra e di roccia. Non è di sabbia, non si vedono le dune leggere e quasi soffici di certi paesaggi sahariani, ma quelle spietate della pietra rossastra e informe di lande sfidate solo da qualche beduino. Un caravanserraglio ancora in costruzione: le auto non avanzano più, la montagna si fa impervia. Alzo lo sguardo: al termine di una lunga scalinata, quasi un serpente di pietra mummificato, un’escrescenza rocciosa pare voler completare l’opera della creazione con una corona di pietra levigata. La fortezza, che so monastero, si erge come chimera. Ma fatalmente arriva l’ora di toccarne la prima pietra, pietra angolare, lisa dal palmo delle mani di pellegrini, dal sesto secolo in qua e forse ancor prima, che si sono posate a loro volta sulle tracce lasciate da soldati persiani, greci e romani. Il monastero fu fondato da un reale etiopico, che preferì il romitorio al trono; popolato fino al 1830, fu abbandonato per mancanza di vocazioni. Paolo Dall’Oglio, gesuita romano, l’ha riaperto nel 1980, riportandolo agli antichi splendori. Ora è un centro di dialogo islamo-cristiano. La porta stretta evangelica qui è una realtà: un metro e venti di altezza per uno di larghezza. Varcata la soglia, un altro mondo appare nella fioca luce della sera. Un mondo di pietra modellata per portare lo spirito umano alla contemplazione attraverso l’ascesi. Ma una porta altrettanto angusta apre a un altro mondo, quello dello spirito: la cappella – che pare una basilica – mostra al pellegrino la fantasmagoria del cielo e del cielo nell’anima, in una totalità affrescata che, rinchiusa nello scrigno di pietra, pare un microcosmo in cui ammirare il macrocosmo e il paradiso e l’inferno. Giovani pregano, meditano, contemplano, dubitano forse, s’attardano alla ricerca di sé stessi e di Dio nel proprio intimo, come tanti piccoli Agostino. Padre Dall’Oglio, perché Mar Mousa? L’inculturazione è incontro. In terra islamica avviene tra cristiani, qui nella forma monastica, e musulmani. Con una motivazione tutta evangelica. L’incontro inevitabile con l’Islam ci obbliga a mettere in moto i motori della carità, dell’amicizia, del buon vicinato e ci porta a capire quanto debba essere radicata in Cristo la nostra fede cristiana. È un fiume in piena, padre Paolo, un focoso testimone del Cristo: Il Vaticano II ha aperto la via del dialogo, ha messo dei paletti al di là dei quali non si può tornare indietro. La cristianità oggi spesso ha paura dell’altro chiamato Islam. Credo che la nostra presenza tra i musulmani e nel deserto possa far riflettere sulla necessità di un incontro ineluttabile. E ricco, ricchissimo. Curiosità di vedere come andrà a finire: La nostra comunità monastica non ha vita facile. Ma in questi anni abbiamo assimilato l’Islam, l’abbiamo scoperto e apprezzato, pur restando totalmente cristiani. Sulla mia tomba vorrei fosse inciso il mio nome in arabo, Boulos, l’apostolo del confronto col diverso da sé. I santuari e il monastero Lasciata Mar Mousa, una stretta valle conduce da Yabrud verso una cittadina dal nome fascinoso: Maalula, ai piedi della catena ancora innevata dell’Antilibano. Qui si trova il monastero di Santa Tecla, Deir Mar Takla. Pare di essere nel siq di Petra, un canyon strettissimo e misterioso che si dice sia stato provocato dal passaggio di Santa Tecla, seguace di San Paolo in fuga, martirizzata sul posto. Più sotto, ecco il monastero di San Sergio, Deir Mar Sarkis, che in alcune sue parti risale addirittura al IV secolo. E il suo altare data ad un’epoca pre-cristiana: è semicircolare e non è piatto – come prescrissero i primi vescovi, per non confondere il rito cristiano con quello pagano -, conservando quei bordi che servivano a trattenere il sangue dei sacrifici animali. Il prete mi offre un bicchierino di passito prodotto dalle vigne del monastero, e poi intona il Padre nostro in aramaico. Indigeni e forestieri fanno la fila per inginocchiarsi. Mi dice: I cristiani sono sempre il sale nella pasta. E il sale non può mai essere troppo. Ancora una ventina di chilometri seguendo una catena montagnosa che pare lo slabbramento d’una ferita mai rimarginata, ed ecco un altro grappolo di case che s’inerpicano su di un colle coronato da un secondo grappolo, di cupole questa volta. Ecco Seidnayya, una delle più antiche mète di pellegrinaggio di tutto il vicino oriente: qui è conservata, in un oscuro anfratto della cripta, un’immagine mariana che si dice dipinta dall’evangelista Luca. Ogni sorta di miracoli è attribuita all’icona, da cristiani e musulmani. Nella scalinata che ascende al santuario, sono in effetti più numerose le donne velate di quelle a capo scoperto, e si confondono con le monache ortodosse che custodiscono il santuario. Perdersi negli intricatissimi passaggi del monastero vuol dire scoprire uno dei luoghi più antichi della fede cristiana, che qui non è un’opinione, è forte come la roccia. Anche quella dei musulmani. Maria fa da trait-d’union tra islamici e cristiani. La moschea omayyade Torno a Damasco, alla moschea degli omayyadi, la perla della città. Tradisce, più che ogni altro luogo, la sua origine che scivola nella notte dei tempi, sino al IX secolo prima di Cristo, con l’ingresso ricavato dal Tempio di Giove e la sala di preghiera a tre navate conservata tale e quale – salvo l’abside – dalla basilica cristiana del V secolo, dedicata al Battista, di cui in una cappella nella navata è racchiuso il capo, così dicono. Ma in Siria, più che in altri paesi del vicino oriente, la convivenza tra i due monoteismi non ha creato problemi insormontabili. Il deputato riformatore Muhammad al-Habash mi dice cose assai interessanti sul rapporto coi cristiani, coi suoi amici, come ci tiene a precisare: Penso che si debba definire meglio il rapporto tra cristianesimo e Islam – mi spiega -, perché gli ultimi dieci anni hanno segnato un arretramento di tale dialogo. Noi riformatori musulmani rifiutiamo l’idea del monopolio della salvezza: non bisogna cercare di convertire l’altro con la forza o con pressioni psicologiche. Con i cristiani in Siria siamo molto chiari su questo punto, e penso che questa sia la base per buoni rapporti.

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