Sei un buon cittadino?

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Antonio ha 11 anni. È un tipetto sveglio, che vive in un quartiere come tanti, in una città che potrebbe essere la tua, dove spesso lo spazio tra luci ed ombre si confonde, dove può non essere facile possedere o acquisire una cultura della legalità. I suoi amici più cari sono Giovanni, coetaneo, con un padre violento; Carmine, quattordicenne, ma già lavora in officina come meccanico; Giuseppe, abbandonata la scuola dell’obbligo, vende sigarette in strada; Angela, invece, studia con profitto e aiuta gli amici a fare i compiti. A loro contrapposti sono i quattro adolescenti che compongono la Banda dei giardinetti, avvezzi ad infrangere le regole e coinvolti in avventure pericolose. A questo manipolo di ragazzi è affidato l’arduo compito di suscitare interrogativi sulla condotta di vita da tenere nelle situazioni a rischio, dal lavoro minorile alle scommesse clandestine e al contrabbando, dall’assenteismo scolastico agli atti di vandalismo e al razzismo, dalla guida di motorini alla violenza negli stadi e alla malavita organizzata. Antonio e gli altri sono i protagonisti di un gioco, Il mistero del quadrifoglio. Un gioco ben presentato su cd e ampiamente interattivo, realizzato dal ministero dell’Interno con l’intento di educare i giovani alla cultura della legalità in termini di senso civico (www.lastanzadiantonio. it). Assieme ad un altro sussidio, Guarda che ti riguarda – ideato e adottato con buon esito dalle parrocchie della Lombardia -, costituisce la dotazione di strumenti che la diocesi di Reggio Calabria, in collaborazione con la Questura della città, ha posto nelle mani degli operatori della pastorale giovanile e di poliziotti, che insieme stanno educando i giovani ai temi della pace e alla lotta contro ogni illegalità. Gli incontri nelle scuole e nelle parrocchie sono iniziati nello scorso novembre ed in programma sino all’estate ci sono decine di appuntamenti. Disponibili si sono subito dimostrati anche i sindaci dei comuni limitrofi al capoluogo. L’iniziativa – ci spiega Luigi Arcudi, direttore della pastorale giovanile della diocesi – si configura come un cammino che porta alla presa di coscienza che il principio della legalità si intreccia con quello della solidarietà. Sappiamo bene quanto in certe aree del paese l’impresa sia improba. Ma il problema del rispetto delle norme non riguarda solo il Mezzogiorno. Quello italiano è infatti un popolo che fa sempre un sacco di fa- tica ad accettare le regole. Basti vedere come si comportano generalmente i bambini, anche quelli considerati di buona famiglia. Viene spesso insegnato loro il valore della furbizia a discapito della buona educazione e dell’onestà. I protagonisti della vita pubblica italiana, d’altro canto, offrono non raramente condotte riprovevoli sul piano dell’esemplarità. Ad incominciare dal dibattito politico, che – secondo Ilvo Diamanti, docente di scienza politica all’università di Urbino – sembra principalmente proteso a colpire gli avversari. Il calcolo elettorale, così, complica l’intento moralizzatore. Con l’esito, prevedibile, di alimentare nuova sfiducia. Perché la sfiducia, quando è utilizzata come arma di lotta politica, per delegittimare gli avversari, in realtà delegittima tutti. Anche coloro che la usano. E non lasciano sperare nulla di diverso le prime avvisaglie dell’imminente campagna elettorale per le elezioni europee. Alla rissosità politica si sono aggiunti negli ultimi mesi eclatanti casi di frode finanziaria, con in testa Parmalat e Cirio, le cui illegalità, erette a sistema, hanno ridicolizzato gli assertori di un’etica degli affari. Ma le malefatte non hanno mai le gambe lunghe. Alla distanza è una logica che non paga. Non per questo, comunque, i casi di mancato rispetto delle regole – ad iniziare dal biglietto non convalidato sul bus – sono in diminuzione. Una recente indagine di Transparency international, l’associazione che valuta il livello d’onestà in 90 nazioni del mondo, colloca l’Italia al 35° posto, ben lontano da tutti i paesi più evoluti. La ricerca registra che nove italiani su dieci ritengono che la corruzione sia molto diffusa nel nostro paese e incida in modo significativo sulla vita politica. Sembra proprio che lo scandalo di Tangentopoli non sia servito a nulla. Il giurista Sabino Cassese, che nel 1996 presentò l’unico documentato rapporto sulla corruzione in Italia, fa presente un fenomeno nuovo. Con il trasferimento di funzioni alla periferia ci sono maggiori casi di corruzione nelle amministrazioni comunali, provinciali e regionali, tutte scarsamente dotate di anticorpi. E conferma che in Italia contro la corruzione si fa molto sotto il profilo delle sanzioni in sede penale, poco invece sotto il profilo della prevenzione in sede legislativa e amministrativa. Come fermare la deriva, culturale prim’ancora che pratica? Una netta posizione al riguardo, con tanto di coraggioso discorso pubblico, è stata presa in modo inatteso da alcuni vescovi, pastori di strategiche città italiane. Dopo l’iniziativa di mons. Vittorio Mondello, a Reggio Calabria, è stato il turno di una voce molto ascoltata, quella del cardinale Dionigi Tettamanzi. Nella festa di Sant’Ambrogio, in dicembre, l’arcivescovo di Milano ha rivolto un vigoroso appello alla città. Ha parlato di una chiamata ad essere giusti, a ridistribuire secondo giustizia i beni ricevuti, in cui il primo dei doveri è di partecipare alla costruzione di una città in cui le antinomie vengano ricomposte, in cui lo straniero sia accolto, i giovani possano costruirsi una famiglia, gli anziani si sentano sicuri. Per Tettamanzi, la situazione attuale provoca e scuote. Da qui, un supplemento di responsabilità, di fantasia, di coraggio, di creatività per essere capaci di andare oltre l’esistente e di realizzare una città nuova. Davanti a tutte le autorità cittadine, il cardinale ha prospettato la città sognata. Quella in cui i luoghi della vita diventino veri luoghi di vita, luoghi umani e umanizzanti, dove il tempo abbia un ritmo più umano e sia possibile la convivenza; una città, luogo di incontro e di incontri. Ma per raggiungere questo, occorre risvegliare in noi la coscienza civile con un soprassalto di nuova responsabilità . Ecco il punto, ecco il richiamo per tutti i cittadini. Tornare a fare i conti con la dimensione etica: in politica, negli affari, nella professione, nella vita comune di tutti i giorni. Non sono ammesse scorciatoie! Non dobbiamo mai abbandonare la nostra responsabilità quotidiana, piccola o grande che sia. Non dobbiamo abbandonarla perché sorretti da fiducia e speranza. Progetto avvincente. Ma – viene da chiedersi – come contribuire quotidianamente a realizzarlo se non si ricopre un ruolo di una qualche responsabilità? Giunge così in soccorso – quasi un dialogo a distanza – la Lettera alla città che il 31 gennaio l’arcivescovo di Modena, Benito Cocchi, ha reso pubblica con un titolo inequivocabile: Cittadini veri, responsabili della città. Egli indica innanzi tutto che responsabilità sta per risposta personale e consapevole presa di posizione di fronte ai problemi e alle situazioni . Senza questo senso di responsabilità non c’è società, non c’è comunità. E questo vale tanto più oggi, quando sembra prevalere una cultura dell’esonero, del chiamarsi fuori: una concezione fatalistica della storia – spiega il presule -, sotto lo stimolo della mentalità individualistica che porta a giustificare assenteismo e defezioni. All’insegna del senso di responsabilità che investe ogni cittadino, mons. Cocchi ha provato a coniugare le virtù cardinali della fede cristiana – prudenza, giustizia, fortezza e temperanza – nella dimensione civica dell’impegno personale. Ne sono derivate indicazioni e definizioni (che riportiamo a parte) utili per tutti i cittadini. Non si tratta di una sorta di galateo da attuare in certe situazioni, ma modi di essere che devono radicarsi nell’interiorità della persona. Tanto che è fin dai primi anni di vita – avverte l’arcivescovo di Modena – che occorre progressivamente favorire la formazione degli atteggiamenti, delle virtù che riguardano anche la vita associata. Per questo, senza trascurare alcuno, è indispensabile privilegiare le nuove generazioni. Magari con l’aiuto giocoso dell’undicenne Antonio alla scoperta della legalità. QUATTRO VIRTÙ CIVICHE Nella Lettera alla città, l’arcivescovo di Modena, mons. Cocchi, condensa il patrimonio comune di valori proprio dei cittadini responsabili nell’esercizio di quattro virtù, cardinali e civiche al tempo stesso. PRUDENZA È una virtù strettamente legata al bene generale, è tipica di chi ha compiti politici, pubblici, riguardanti l’intera società. Per sua natura tende all’azione. Non è dunque l’atteggiamento di chi procede con cautela per mancanza di coraggio, ma di chi si sforza di misurare tutto il suo operare secondo il metro del bene comune. Non si tratta soltanto di saper distinguere il vero dal falso e il bene dal male, ma anche di individuare le scelte utili al bene di tutti. GIUSTIZIA Regola i nostri rapporti sociali, fondandoli sull’accettazione che esistono diritti e doveri e su un’equa distribuzione degli stessi. Dis- suade dalle espressioni di intolleranza; respinge il ricorso alla violenza non solo fisica ma anche verbale e mantiene entro limiti accettabili anche i toni delle polemiche politiche ed ideologiche. FORTEZZA È la virtù che, contro ogni opportunismo, porta a mantenersi fedeli con ferma volontà al bene, al giusto. È la capacità di resistere alle avversità, di non scoraggiarsi dinanzi ai contrattempi, alla pigrizia, alla viltà. Un tale atteggiamento dà slancio alla vita morale, favorisce una generosità altruistica. TEMPERANZA Rende capaci di equilibrio di fronte alla pretesa istintiva di ottenere tutto ciò che piace e che attira. La temperanza consiste nella capacità di soddisfare i propri desideri con moderazione, in modo da non esserne sopraffatti. Si collega all’equilibrio, all’autocontrollo, al senso dell’armonia, dell’ordine e della misura. Quest’atteggiamento ripristina il controllo delle nostre scelte e ci rende capaci di orientarle secondo criteri di giustizia e di vera libertà. IL FILOSOFO GALIMBERTI I NUOVI VIZI A differenza dei vizi capitali che segnalano una deviazione, i nuovi vizi ne segnalano il dissolvimento, tra l’altro neppure avvertito, perché investe indiscriminatamente tutti. E spiega: I nuovi vizi, infatti, non sono personali, ma tendenze collettive, a cui l’individuo non può opporre un’efficace resistenza individuale, pena l’esclusione sociale. Così scrive, all’inizio del suo recente libro I vizi capitali e i nuovi vizi (Feltrinelli), Umberto Galimberti, docente di filosofia della storia e psicologia generale all’università di Venezia. Gli sta a cuore una cosa, a proposito dei nuovi vizi: Esserne almeno consapevoli, e non scambiare come valori della modernità quelli che invece sono solo i suoi disastrosi inconvenienti. Come i vizi capitali, ne ravvisa sette: consumismo, conformismo, spudoratezza, sessomania, sociopatia, diniego, vuoto. Qui ci soffermiamo su alcuni. CONFORMISMO La nostra epoca è la prima a chiedere l’omologazione di tutti gli uomini come condizione della loro esistenza. Ciò comporta che la coscienza dell’individuo si riduca alla coscienziosità nell’esecuzione del suo lavoro. Viene richiesta solo una buona qualità di collaborazione, indipendentemente dagli scopi che sono di competenza dell’apparato.Tutto poggia su un fondamento: È necessario che il mondo in cui viviamo non venga avvertito come uno dei possibili mondi, ma come l’unico mondo fuori del quale non si danno migliori possibilità d’esistenza. Da qui, l’illusione della libertà. SPUDORATEZZA È il crollo di quelle pareti che consentono di distin- guere l’interiorità dall’esteriorità, la parte discreta, singolare, privata, intima di ciascuno di noi dalla sua esposizione e pubblicizzazione. Il pudore allora non è una faccenda di vesti e sottovesti, ma una sorta di vigilanza dove si decide il grado di apertura e di chiusura verso l’altro. Ma contro questo soffia il vento del nostro tempo che vuole la pubblicizzazione del privato, che mette in mostra l’interiorità. Le trasmissioni televisive fanno passare la persuasione che la spudoratezza è una virtù: la virtù della sincerità, mentre il pudore può essere non solo sintomo di insincerità, ma addirittura di introversione, di inibizione se non di repressione . DINIEGO Consiste nel negare, nelle forme più svariate e ipocrite, l’esistenza di ciò che esiste e per giunta si conosce. È maturata perciò la sociologia del diniego. Spiega Galimberti: I bambini che muoiono di fame in Somalia, gli stupri di massa delle donne in Bosnia, i massacri di Timor Est, i senzatetto nelle nostre strade sono fatti riconosciuti, ma non percepiti come un elemento di disturbo psicologico o carichi di un imperativo morale ad agire. Il diniego implicito che qui scatta è lo stesso per cui, di fronte ad un incidente stradale, i testimoni si dileguano, perché il fatto non ha niente a che fare con loro, perché ci penserà qualcun’altro . Ma, attenzione: Il diniego dilaga in maniera insospettata anche in famiglia, dove tutti sono impegnati a negare ciò che esiste e si vede. Quale rimedio? Contro il diniego, non dobbiamo invocare la verità, difficile da ammettere, ma la fraternità. L’abbondanza di informazione ci rende infatti responsabili di ciò che sappiamo e, se non diventiamo sensibili alla fraternità, di fronte a quel che sappiamo diventiamo irrimediabilmente immorali.

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