SANREMO N° 56: il festival dei poveri

Ipiù l’hanno sopportato con la pazienza di un popolo ormai assuefatto al peggio. Epperò, mai come quest’anno, il Festival ha dimostrato la sua ineluttabilità: un male necessario per preservare l’attuale ecosistema catodico. In ogni caso, il peggior Sanremo degli ultimi vent’anni è già evaporato negli annali con tutta la sua imbarazzante pochezza, e senza far danni eccessivi. Noioso, interminabile, farcito di spot, trincerato nei suoi cliché, vessato dai veti pre-elettorali e mortificato dai riverberi degli splendori olimpici, ha centrifugato canzonette banali e lustrini sartoriali, inquadrature pruriginose e ospiti tanto strapagati quanto pretestuosi. Ma neppure il perverso stillicidio delle eliminazioni è bastato a salvarlo dal tracollo degli share: perché, a perfetta immagine e somiglianza nostra, è stato un Sanremo dei poveri, e di continui, penosi, vorrei ma non posso: perché l’incerto Panariello s’è dimostrato solo un surrogato di Fiorello, la Cabello una Cortellesi in minore, la Blasi una starlette da strapaese. Perfino la scenografia metteva una tristezza da far rimpiangere il kitsch delle grandeur buadesche o i sensazionalismi dei Fazio e dei Bonolis. Per non dire delle canzoni. Tranne qualche lampo (per altro quasi sempre snobbato dai giurati), uno zuppone di sentimentalismi da supermercato e di melodie scolastiche, pastorizzate dall’onnipresenza orchestrale. Poco più che un accessorio proporzionale al contesto, sintomatico verrebbe da dire. Del resto ormai il Festival sta alla canzone italiana come i play-out al Campionato: si lotta per non retrocedere, non per essere promossi (se non nell’Olimpo dei Grandi, almeno tra i Cavalieri della seconda Repubblica). Altra e altrove è la musica che ci gira intorno; qui tutt’al più la si scimmiotta, facendo il verso al Liga o ai Subsonica, a Fossati o alla Pausini. E quei pochi talenti che ogni anno Sanremo comunque mette in mostra – vidimandone l’ascesa e non più scoprendoli dal nulla come accadeva in passato – sanno benissimo che il loro futuro dovranno andare a giocarselo in fm, su internet o in tour; di certo non in questo hard-discount della canzonetta lassativa che invece pare fatto su misura per santificare chi, furbescamente, da tempo ne ha preso le distanze. Impossibile però non cogliere nella deriva festivaliera, il declino di un Paese che proprio qui ha sempre amato specchiarsi. Almeno in questo, Sanremo continua a mostrarci ciò che siamo: fanfaroni e provinciali, precari e conservatori, sentimentali ma sottilmente crudeli. Facciamocene una ragione e tiriamo innanzi. E chi si sentisse orgogliosamente estraneo a cotanta ipocrisia certifichi di non averne visto più di una serata, o taccia per sempre I verdetti VINCITORE ASSOLUTO POVIA Vorrei avere il becco Il vincitore morale dello scorso anno riscuote il credito con un inno all’amore molto naïf: tenero anche se non certo all’altezza de I bambini fanno ooh. GIOVANI RICCARDO MAFFONI Sole negli occhi Senza infamia e senza lode: una ballatona vagamente ligabuesca, che racchiude il paradigma perfetto del giovanilismo alla sanremese. GRUPPI NOMADI Dove si va Un indiretto premio alla carriera per l’onestà intellettuale di Carletti e soci. Brano discreto, uno dei pochissimi di quest’anno con un chiaro riferimento al sociale. DONNE ANNA TATANGELO Essere una donna Che le firme siano di due maschi (il peggior Mogol e il solito d’Alessio) non è più ridicolo di quanil to sia inquietante lo sfruttamento minorile degli sciagurati Ragazzi di Scampia… PREMIO DELLA CRITICA CARLO FAVA con NOA & SOLIS S.QUARTET Un discorso in generale Una piccola perla affondata nella melma circostante. Di gran lunga il brano migliore, forse l’unico degno di sopravvivere al pragmatismo dei mercati.

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